lunedì 28 luglio 2014

L’ Agricoltura italiana tra torpore secolare, sviluppo travolgente e tramonto

di Antonio Saltini e  con Tommaso Maggiore

2ª Parte  



Tra le facoltà fondate all’alba del secolo, presso quella di Firenze,(qui) dopo l’insegnamento di Alberto Oliva, intelligenza versatile che lascia pagine luminose sulla storia dell’agricoltura romana, operano gli allievi, Gasparini, di cui abbiamo registrato il magistero milanese, e Orsi, cui seguiranno Landi e Talamucci.


Parabole scintillanti tra cattedre successive

Il primo studioso delle sistemazioni idraulico-agrarie di collina, tema peculiare della più antica tradizione agronomica toscana, il secondo impegnato nella sperimentazione sulle foraggere.
A Firenze gli studi agronomici assumono un indirizzo peculiare con lo sviluppo della geopedologia, il terreno che affrontato, primo in Italia, da Alvise Comel, a lungo direttore della Stazione chimico-agraria di Udine, sede della realizzazione della prima carta pedologica italiana, relativa al Friuli e alla Venezia Giulia, è posto al centro delle proprie indagini prima da Principi, quindi dal discepolo, Fiorenzo Mancini, che vi realizza ricerche di precipuo rilievo, attribuendo Firenze un primato nazionale che sarà consacrato dall’attività dell’Istituto sperimentale per lo studio del suolo collocato nel capoluogo toscano.
Un ruolo peculiare nelle vicende dell’insegnamento dell’agronomia nel Paese deve essere riconosciuto ad Alfonso Draghetti, direttore, durante il Ventennio fascista e fino al 1959, della Stazione sperimentale di Modena, ultimo di una successione di sperimentatori illustri, tra i quali Romulado Pirotta, Otto Penzig e Gino Cugini. Nel laboratorio dell’organismo modenese Draghetti realizza le esperienze sulla nutrizione invernale del frumento da cui prenderà corpo la metodologia di concimazione che assicurerà il successo dei frumenti di Nazareno Strampelli. Il ciclo tardivo-precoce che li contraddistingue, frutto precipuo della lucidità genetica del costitutore, cui si unisce, peraltro, una scarsa resistenza al freddo, non avrebbe manifestato i propri effetti sulle rese senza la congegnazione di piani adeguati di concimazione azotata, che costituiscono il frutto delle indagini fisiologiche di Draghetti e Gola, botanico dell’Università di Padova, e della divulgazione in campo di Dante Gibertini, ricercatore, insieme a Draghetti, alla Stazione sperimentale di Forlì, quindi direttore della Cattedra ambulante di Brescia. 
Conservando la direzione della Stazione di Modena, dove ha impostato piani di indagine di precipuo significato nelle aziende sperimentali di San Protaso in pianura, a Bomporto, e di Bombere in collina, a Guiglia, Draghetti è il primo agronomo della nuova Facoltà di Padova, creata nel 1948, dove intraprende indagini sperimentali sulla base delle esperienze realizzate nelle aziende dell’istituto modenese. Da Padova si trasferisce alla Facoltà di Piacenza, anch’essa di recente costituzione, dove non resta, peraltro, a lungo, sostituito da Giampietro Ballatore, proveniente da Palermo, dove farà ritorno nel 1959 per occupare lungamente la cattedra, realizzando studi su più di uno dei settori chiave dell’agricoltura dell’Isola, al primo posto il grano duro, quindi la fava e le foraggere, e dirigendo un centro per l’irrigazione. 
Personalità versatile Ballatore attiva alla Facoltà di Palermo anche gli studi di geopedologia, che affida a Fierotti, prepara un nutrito gruppo di ricercatori che lo sostituiranno negli insegnamenti dell’agronomia, delle coltivazioni erbacee, dell’orticoltura. Mentre a Palermo Ballatore studia le colture tradizionali dell’Isola, costituiscono terreno specifico di impegno della Facoltà di Catania le colture orticole in serra che rappresenteranno, per trent’anni, la sfera di più prodigioso dinamismo dell’agricoltura siciliana. Legheranno il proprio nome ai fasti della serricoltura di Vittoria, un fenomeno in parte cospicua guidato dai tecnici delle industrie produttrici di sementi e antiparassitari, i docenti catanesi allievi di Iannaccone Salvatore Foti e Giuseppe La Malfa.
Ricordando cinquant’anni di ricerca agronomica in Italia non si può trascurare il ruolo dell’industria dei fertilizzanti, che con i propri guadagni contribuisce, tra gli anni Trenta e gli anni Sessanta, a finanziare la ricerca sospingendo l’innalzamento delle rese di tutte le colture essenziali. 
Franco Angelini, responsabile, durante il Ventennio, della promozione dei fertilizzanti, assurge a presidente del Consiglio superiore dell’agricoltura, occupa, quindi, la cattedra di Portici,dalla quale propone il grande manuale sulle colture erbacee costituente, in realtà, opera degli assistenti. Dopo la guerra i produttori di fertilizzanti creano la Seifa, cui è saldamente legata l’attività sperimentale di agronomi di prestigio, Maggiore menziona Mancini, docente a Bologna, che ha sviluppato un’attività di sperimentazione in sistematica sintonia con l’industria saccarifera.

Dal 1970, un’agricoltura nuova


Nelle campagne italiane ha operato, quindi, una’autentica folla di agronomi. Il loro numero costituiva autentica necessità, il loro lavoro è stato vera ricerca scientifica? Cosa hanno lasciato, sul terreno applicativo, nelle regioni in cui hanno professato il proprio insegnamento, e condotte le proprie esperienze? Propongo, al termine della complessa rassegna, le difficili domande a Maggiore. Più di uno, è la risposta del mio interlocutore, ha realizzato sperimentazioni di autentica dignità scientifica: lo conferma la rapida diffusione della metodologia di Fisher, che dalla straordinaria esperienza di Rothamsted aveva ricavato le procedure per valutare statisticamente il significato di ogni prova. Impiegando sistematicamente la statistica, la sperimentazione italiana si adeguò rapidamente ai canoni della ricerca internazionale. Sul terreno applicativo i docenti delle facoltà collocate alle latitudini diverse del Paese hanno preparato, negli ambienti diversi della Penisola e delle Isole, gli uomini, proprietari, tecnici degli organismi pubblici, specialisti al servizio delle società produttrici di antiparassitari e di sementi, che avrebbero sospinto la prorompente crescita che l’agricoltura italiana realizzava tra gli anni Sessanta e la fine degli anni Ottanta. 
 
Le cattedre ambulanti avevano identificato, nei primi decenni del secolo, gli ordinamenti capaci di accumulare nel terreno, attraverso le foraggere, la massima quantità di azoto a favore del frumento: nel Dopoguerra l’ampia disponibilità di fertilizzanti consentiva di mutare radicalmente gli obiettivi aziendali, permettendo di mirare a produzioni più elevate mediante ordinamenti semplificati. I risultati sono stati una nuova zootecnia da carne, una nuova zootecnia da latte, nelle province vocate grandi produzioni orticole, il frumento si è ritratto alle aree dove poteva realizzare rese corrispondenti agli standard internazionali, abbiamo vissuto l’epopea del mais e quella della soia, la seconda epopea breve, ma con produzioni elevatissime. Un impegno oltremodo significativo è stato espletato, aggiunge Maggiore, per l’utilizzazione funzionale delle montagna alpina, per la quale si debbono ricordare gli studi di Crogioni e Cavallero alla Facoltà di Torino, e di quella appenninica, per la quale oltre alle indagini di Draghetti a Guiglia si possono ricordare quelle di Orsi e Talamucci della Facoltà di Firenze. Entrambi gli sforzi sono stati vanificati, peraltro, dall’inarrestabile contrarsi di ogni convenienza economica alla produzione agricola nelle aree declivi: dobbiamo comunque ritenere che i risultati realizzati possano rivelarsi preziosi in futuro per la razionale gestione ambientale di quelle aree. Bisogna altresì ricordare, sottolinea il mio interlocutore, che i progressi delle grandi colture sugli arativi si sono verificati parallelamente all’imponente crescita della frutticoltura, della viticoltura, dell’olivicoltura, che da settori al tempo della guerra appena sfiorati dai primi segni di rinnovamento si sono convertiti in sfere produttive che hanno potenziato la quantità, migliorato la qualità, realizzato, per anni, introiti ingenti da poderosi flussi di esportazione.

Sul futuro, gli interrogativi inquietanti


Un prodigioso processo di crescita che pare essersi arrestato, consegnando l’agricoltura italiana a un processo di involuzione che pare stia soffocando, uno alla volta, tutti i settori che hanno vissuto, nell’ultimo cinquantennio, una’autentica epopea di splendore. Mentre i redditi si contraggono per tutte le produzioni, problemi nuovi e difficili impongono la propria cogenza, rileva Maggiore, e non si percepisce né la capacità scientifica né la determinazione politica di risolverli. L’allevamento da latte, nelle province dove non stia scomparendo, si converte in costellazione di impianti imponenti, a Cremona tra 200 e 500 capi, con problemi immani di utilizzazione agronomica dei liquami, problemi che possono essere risolti solo con piani comprensoriali tecnicamente ineccepibili e rispondenti a regole razionali e di applicazione. Un problema identico vivono le aree dove si è concentrato l’allevamento suino, che ha abbandonato regioni dove pareva solidamente radicato per raccogliersi in poche province in cui il numero dei capi, quindi l’entità dei reflui, ha segnato una crescita che non è pleonastico definire astronomica. Senza risolvere quei problemi l’allevamento si trasforma in minaccia grave per l’integrità dell’ambiente. Ma a rendere qualunque piano di smaltimento più difficile presta un contributo nefasto l’urbanizzazione senza regole che ha fatto della Pianura Padana un mosaico di aree industriali, villini con giardino, spezzoni di agricoltura e aree commerciali, senza regole, senza ordine, libero chicchessia di costruire cosa volesse dove volesse.
Oltre all’allevamento problemi non meno ardui deve affrontare la cerealicoltura, prosegue Maggiore: anche il più cospicuo dei produttori di frumento o di mais rischia di non trovare oggi, sul mercato, chi sia interessato ad una partita di diecimila quintali. Bisogna mirare ai centomila quintali, al milione, e per farlo occorre un piano comprensoriale, che impegni cento, cinquecento agricoltori a seminare cultivar o ibridi simili per tipologia di granella, e a coltivarli modulando fertilizzazione e trattamenti antiparassitari e diserbanti per ottenere, nella varietà dei terreni, un prodotto identico sul piano merceologico e, soprattutto, su quello fitosanitario, esente, cioè, da micotossine, che possa interessare i grandi complessi di trasformazione: il mangimificio o l’amideria. Dobbiamo riconoscere, tuttavia, che indurre gli agricoltori alla grande svolta in anni in cui dal frumento o dal mais non ricavano che perdite non è impegno agevole. Eppure, se vogliamo continuare a produrre almeno parte del frumento necessario al nostro pane, e ai nostri spaghetti, e il mais per i nostri allevamenti, la strada, della produzione concertata è strada  obbligata.
Trascurando il ruolo della politica, per i cui praticanti pare che l’esistenza di un’agricoltura che assicuri il cibo alle generazioni future non costituisca ragione di alcun interesse, sul terreno scientifico è ancora necessario, chiedo al mio interlocutore, che il paese delle cento agricolture sia dotato di venticinque facoltà di agraria? I problemi delle cento agricolture italiche si sono uniformati, mentre le facoltà operanti alle latitudini diverse si sono convertite, in gran parte, in scatole vuote, con i laboratori dovunque deserti, senza autentico ricambio di docenti, risponde Maggiore. Ne basterebbero, forse, quattro-cinque, concentrando le forze, consentendo agli studiosi di cooperare apportando le competenze complementari necessarie ad affrontare problemi oltremodo difficili, che richiedono il lavoro comune dell’agronomo, del geopedologo, del climatologo, del genetista, e altre ancora. L’agricoltura italiana vive una crisi grave: gli inputs scientifici per affrontarla dovrebbero provenire da pools di ricercatori capaci di affrontare la crisi nella complessità dei suoi nodi. Gli studiosi preparati e capaci esistono, dichiara Tommaso Maggiore, ma non possono cooperare, come imporrebbero le dimensioni dei problemi, essendo dislocati uno a Torino, uno a Cesena, uno a Foggia, senza occasioni formali di incontro diverse dal convegno annuale di qualche società scientifica.
 

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