lunedì 25 agosto 2014

A Bruxelles quarant’anni nel ruolo scelto alle origini: quello di comparse

di Antonio Saltini e con Dario Casati




La terza sequenza delle vicende dell’agricoltura italiana dagli anni Sessanta al nuovo Millennio è il saggio scenico di ministri, funzionari, rappresentanti confederali italiani a Bruxelles, un saggio che ci ha veduti rispettare con devota fedeltà il ruolo scelto alle origini del sodalizio comunitario, quello di rispettose, e disinteressate, comparse.              A rievocarne gli attori e lo stile è un osservatore che ha sempre seduto in prima fila a scrutare le vicende comunitarie, Dario Casati, docente di economia e politica agraria.
Realizzo la terza  delle conversazioni che mi sono proposto su quarant’anni di agricoltura italiana affrontando un tema cruciale: le forme, i propositi, i risultati della partecipazione italiana alla politica agricola comunitaria, vicenda storica, ormai, nel duplice significato che può attribuirsi al termine, considerando la politica agricola un continuum di scelte e realizzazioni che ha espresso la valenza degli eventi che condizionano la vita economica e civile di popoli e paesi durante l’arco di generazioni successive, qualificandola, insieme, circostanza che avuto il proprio inizio ed è giunta al proprio termine, siccome la strategia che i firmatari del patto di Roma immaginarono per il governo dell’agricoltura è stata tanto radicalmente alterata da costituire, oggi, fantasma politico in cui non è riconoscibile il progetto delle origini. Enuclea la storia della parte giocata, nella vicenda, dall’Italia, Dario Casati, docente di economia e politica agraria, prorettore dell’Università di Milano, osservatore qualificato degli eventi di Bruxelles da quando a Bruxelles realizzò, neolaureato, uno stage di sei mesi a contatto con i primi protagonisti del sodalizio comunitario, fruendo del confronto quotidiano con direttori generali e alti funzionari, con lo stesso Mansholt, verificando, presente ai primi consigli dei ministri, lo stile ed il peso dei rappresentanti italiani, stile e peso che avrebbero imposto il cliché d’obbligo, in una patetica, interminabile ripetizione, a tutti i successori.

Carbone, acciaio e forza lavoro

La Comunità, l’istituzione che per anni avremmo chiamato il Mec,(qui) esordisce Casati, fu fondata da tre grandi paesi, da due paesi minori, dalle dimensioni di una regione italiani, e da una città-stato, il Lussemburgo. Tra i tre paesi maggiori la Francia apportava alla dotazione comune l’acciaio, la Germania il carbone, noi entrammo con l’impressione di essere accettati perché potevamo offrire emigranti: i minatori per le miniere di carbone e gli operai per gli altoforni. Siamo entrati con un forte complesso di inferiorità, saremmo divenuti, nei lustri successivi, una potenza industriale: il nostro atteggiamento non sarebbe mai mutato. 
Se i nostri uomini politici degli anni Sessanta a Bruxelles non andavano volentieri siccome immaginavano di doverci andare col cappello in mano, i successori non ci sarebbero andati con uno spirito diverso perché verso la Comunità avevano ereditato un sentimento profondo di estraneità, un radicato disinteresse: eravamo entrati nel sodalizio come soci di minoranza, gli eventi di Bruxelles non avrebbero mai acquistato autentico rilievo a Roma, dove quanto avveniva a Bruxelles non avrebbe mai condizionato la vita politica. Per un parlamentare italiano andare a Bruxelles avrebbe sempre significato assentarsi dal teatro delle scelte essenziali, assentarsi rischiando di mancare al momento in cui giocare le proprie carte. Si possono ricordare, a proposito, episodi emblematici: Emilio Colombo avrebbe preteso la conclusione del primo consiglio dei ministri, il 13 gennaio 1962, accettando le imposizioni francesi, compromettendo la resistenza della Germania, decisa a negoziare ancora, rinunciando a qualunque richiesta italiana, a compensazione dei vantaggi ottenuti dalla Francia, perché il giorno successivo si sarebbe aperto, a Roma, il congresso della Democrazia cristiana, dove, era noto, gli assenti non avrebbero potuto prenotarsi per qualche poltrona di prestigio. Franco Maria Malfatti,(qui) il primo, per decenni l’unico, presidente italiano della Commissione, abbandona, a metà, il mandato per correre in Italia a partecipare alla campagna elettorale. L’unico successore, Prodi, non avrebbe illuminato trent’anni senza un giorno di gloria.
Il rifiuto morale di reputarci parti alla pari del sodalizio ha un riscontro eloquente nel ruolo e nel prestigio del personale italiano in servizio alla Commissione: ai concorsi per le prime assunzioni, mentre Germania, Francia e Olanda negoziano con durezza ogni direzione generale, i nostri ministri reputano un vanto collocare centinaia di uscieri e fattorini, i figli dei minatori italiani in Belgio, che potevamo candidare a quel ruolo perché capivano il francese: il precedente glorioso dello stormo di telefoniste abruzzesi che si sarebbero insediate nel cuore delle comunicazioni comunitarie al seguito di Lorenzo Natali, intemerato paladino dell’emancipazione femminile tra le donne dei propri monti. E da allora i governanti di Roma si sarebbero sempre signorilmente astenuti dalle negoziazioni per direzioni e vicedirezioni generali, gli italiani che avrebbero vinto un concorso nella burocrazia comunitaria per fare carriera avrebbero dovuto offrire la propria devozione al superiore tedesco o belga, e, simmetricamente, nessun italiano che avesse realizzato, a Bruxelles, una carriera scintillante, avrebbe mai potuto avvalersene per guadagnare, a Roma, un ruolo ministeriale di primo piano. Come i medici che hanno operato, in America, nella clinica di un Nobel, e, tornati a Firenze, o a Bologna, sono stati paralizzati dalla diffidenza con cui i colleghi hanno impedito che potessero realizzare, utilizzando l’ esperienze americana, una clinica di standard internazionale.

Voglio solo sapere se dire si o no!”

Del ruolo di comparsa dell’Italia nel sodalizio comunitario Dario Casati ha goduto dell’amaro privilegio di essere, all’alba del sodalizio, testimone diretto: vinto, appena laureato, il concorso bandito dalla Commissione per uno stage di sei mesi a contatto con la prima burocrazia comunitaria, ricorda con commozione l’attenzione che ai giovani del gruppo dedicava il primo presidente della Commissione, Sicco Mansholt,(qui) un uomo assurto al mito tra gli artefici del consorzio di nazioni nato per restituire ai popoli d’Europa, dopo l’orrore del secondo conflitto mondiale, la fiducia reciproca, la certezza del progresso, per conquistare all’Europa, antica dominatrice coloniale del Pianeta, il ruolo nuovo di potenza impegnata alla cooperazione per il benessere della collettività internazionale. Di Mansholt ricorda, con emozione particolare, l’invito a confrontare le idee, all’alba (letteralmente, dato l’uso di protrarre i dibattiti durante la notte) delle riunioni dei ministri, le proprie idee con i giornalisti: avendo espresso a rappresentanti della stampa valutazioni che non corrispondevano a quelle del portavoce del Consiglio, lo stesso funzionario avrebbe preteso che il Presidente della Commissione smentisse il neolaureato italiano che esprimeva opinioni che non era autorizzato a manifestare. Dopo avere ufficialmente dichiarato che il partecipante ad uno stage non poteva formulare valutazioni che potessero essere attribuite alla Commissione, Mansholt lo avrebbe convocato per invitarlo a proseguire, sostituendo un ristorante alla sala stampa, i contatti con i giornalisti.
Del ruolo italiano a Bruxelles Casati avrebbe compreso l’essenza osservando forme e modi del confronto di Restivo, uno dei primi ministri dell’agricoltura di Roma a partecipare all’agone comunitario, con i colleghi: dopo avere proposto i dati su una produzione chiave dell’agricoltura italiana il ministro italiano veniva platealmente smentito dal collega olandese, che spiegava che l’addetto agricolo dell’ambasciata olandese a Roma disponeva di dati più aggiornati di quelli forniti a Sua Eccellenza dal Ministero. Quando, in uno degli intervalli di rito della riunione, il Ministro si ritirava nel ridotto della delegazione italiana per valutare, con i collaboratori, il procedere della trattativa, Casati, presente, assisteva al patetico sforzo di direttori e vicedirettori ministeriali per spiegare a Sua Eccellenza le connessioni di dati e proposte: irritato dalla complessità del problema il Ministro avrebbe tacitato i collaboratori ordinando, ultimativo. “Voi dovete solo dirmi se devo dire si o devo dire no. Tutto il resto non interessa. Voglio sapere se il nostro deve essere un si o un no!”
L’ignoranza orgogliosamente difesa da sua eccellenza Restivo su un dossier che Casati non ricorda se riguardasse polli, pomodori o mozzarelle, non costituiva, mi spiega, che il corollario dell’assoluta indifferenza, per il Governo nazionale, verso qualunque provvedimento in corso di elaborazione a Bruxelles. La politica comunitaria ha conosciuto grandi, drammatiche svolte, mi ricorda: ognuna è stata preparata da documenti che dalla bozza stilata da un ufficio della Commissione conoscevano, durante uno, due anni di elaborazione, modifiche molteplici, spesso radicali, dopo l’incontro tra ministri francesi e tedeschi, o la colazione dei medesimi ministri con il responsabile agricolo della Commissione. All’iter dei documenti che hanno segnato le tappe della politica agricola comune l’Italia è sempre stata assente: i nostri ministri, ribadisce Casati, “si accorgevano” del documento quando veniva diffusa la versione definitiva, quando, cioè, sul testo si erano espressi i ministri francesi e tedeschi, quando, quindi, “il gioco era fatto”. Se quei documenti disconoscevano, o, addirittura, colpivano interessi italiani, l’Italia avrebbe espresso la propria opposizione, un’opposizione che, siccome si manifestava su una scelte già concordata dai propri partner, era inevitabilmente, isolata, che si sarebbe tradotta in un conato negoziale privo di possibilità di successo.
All’evoluzione della politica della Comunità l’Italia, conclude amaro Casati, non ha prestato una sola idea, non ha mai offerto un contributo di rilievo per il prendere corpo di un documento destinato a segnare una svolta. Al ruolo di comparsa scelto alle origini del sodalizio abbiamo assolto, con cinica fedeltà, fino alla fine. La prossima grande svolta, la scelta delle linee che dovrebbero orientare la politica agraria dell’Unione nel nuovo Millennio, sarà, ancora, una svolta che ci sarà imposta e che accetteremo supinamente, senza avere prestato alcun contributo alla sua elaborazione. Il numero dei soci è mutato: nonostante possiamo vantare, di fronte ai nuovi adepti del Nord e dell’Est, il titolo di soci fondatori, rispettando lo spartito delle scelte antiche alla decisione in discussione da mesi non abbiamo rivolto alcuna attenzione: non lo abbiamo mai fatto, al disegno della politica agricola del Millennio appena iniziato non presteremo il contributo di un paese la cui classe politica possedesse una visione della direzione in cui si vanno evolvendo i rapporti nel consorzio di paesi che debbono condividere la gestione dell’unico globo sul quale coabitano.

Litigare con gli amici: una strategia vincente

Ricordo Giuseppe Medici definire, garbatamente ironico, l’amico Marcora “un uomo dalle virtù risorgimentali”. In sintonia al giudizio del grande maestro dell’economia agraria Dario Casati esamina gli elementi che fecero del ministro Marcora (qui) la singolare eccezione dello stile italiano a Bruxelles. Marcora capì, mi spiega, che per stare nel gioco del Consiglio bisognava conoscere i colleghi e negoziare, e con l’aereo ministeriale intessé la trama più intensa di contatti personali, per capire e per farsi capire, così che quando, secondo i turni di rito, gli spettò la presidenza del Consiglio, era amico di tutti, conosceva quello che ciascuno pretendeva, sapeva quello che a tutti avrebbe potuto chiedere. Aveva capito che stabiliti rapporti personali si poteva litigare, e che litigando si poteva ottenere. Litigare, sorride Casati, conoscendo i dossier: del ministro lombardo il prorettore dell’Università di Milano conserva ricordi personali che menziona con affettuosa ironia, dalla telefonata serale con cui il Ministro gli chiese chiarimenti su dati che Casati aveva pubblicato e di cui “Albertino” Marcora voleva comprendere il significato, ai numerosi convegni durante i quali interrompeva la discussione e pretendeva che fosse lui a spiegare: “Professurìn, glie lo spieghi mo lei!”
Una straordinaria capacità tattica, riconosce Casati, senza violare il principio che obbligava l’Italia a ignorare qualunque orizzonte strategico. Come stratega Marcora avrebbe proposto il “quadrifoglio”, creatura illegittima di un’idea americana, nota il mio interlocutore, che nessuna strategia avrebbe imposto all’anarchia agraria italica. Solo Pandolfi, l’intelligenza del filosofo, avrebbe tentato di elaborare un autentico disegno di strategia agraria, Casati lo ricorda con devozione, annotando amaro che ci fu chi reagì con drammatica tempestività, reputando che un piano del Ministro incrinasse il proprio ruolo di unico arbitro dell’agricoltura nazionale, e pretendendo di imporre il proprio senza accettare obiezioni. Purtroppo, annota amaro, il contropiano di Arcangelo Lobianco era la più colorita macedonia di idee eterogenee raccolte in una settimana per anticipare, con una grandiosa presentazione nell’hotel dei convegni politici decisivi, il piano del Ministro. In termini di capacità negoziale, annota, con rigore storico Casati, l’unico, tra i successori, che possa vantare di avere creato un’alleanza attorno ad interessi italiani, nel caso la necessità di concludere la tragicommedia delle quote latte, sarebbe stato il ministro dell’agricoltura del premier D’Alema, De Castro, riuscito nel portentoso proposito di unire i grandi esportatori comunitari a difesa del diritto dell’Italia, primo tra i paesi importatori, a produrre una quantità di latte meno lontana al fabbisogno nazionale. Su piano della strategia agropolitica, non uno solo dei responsabili successivi di via Venti Settembre, conclude categorico, merita una menzione.

Malgrado la politica delle tre teste, il progresso delle produzioni

Il disinteresse del mondo politico per le decisioni di Bruxelles è stato compensato, chiedo a Casati, dall’attenzione della cultura economica e agraria, o all’indifferenza politica ha corrisposto quella di docenti e commentatori? Evitiamo di parlare di commentatori, mi invita, desolante, Casati: sulla competenza di quanti hanno spiegato agli Italiani, dalle pagine dei giornali, cosa significassero le scelte di Bruxelles, è decoroso evitare di pronunciarsi. Ma anche per la scienza dobbiamo riconoscere che l’ultimo cinquantennio non ha conosciuto un solo studioso che potesse confrontarsi con Serpieri,(qui) Tassinari (qui) o Medici,(qui) che sapevano ideare progetti quali la bonifica integrale o la riforma del latifondo. Pensiamo alla valenza concettuale di quei disegni nel quadro economico e civile in cui vennero concepiti, alla capacità di immaginare, di prevedere, di prefigurare che presupponevano. La cultura agraria ha seguito, nei decenni recenti, gli indirizzi della politica, e, si deve aggiungere, delle organizzazioni sindacali, accomunate, nonostante il luccichio personale di qualche presidenza, dall’appiattimento su poche idee chiave, luoghi comuni o miti sacrali, primo tra tutti quello della piccola proprietà coltivatrice. Il Paese ha vissuto scontri epici, fino ad anni recentissimi, per i canoni d’affitto o per le clausole con cui tumulare la mezzadria. Ha impegnato risorse immense per mantenere un apparato cooperativistico che i grandi partiti consideravano complemento irrinunciabile. E’ stato spettatore, poi, delle velleità e delle contraddizioni della politica regionale: le prime amministrazioni regionali si misurarono con la scelta suprema se accettare supinamente la versione delle decisioni di Bruxelles suggellata da Roma o differenziarsi. In un primo momento vi furono regioni che pretesero di distinguersi, di interpretare le decisioni di Bruxelles con autonomia, poi, dopo che le interpretazioni eterodosse furono impietosamente cassate, si è imposto il conformismo, l’uniformità passiva che corrisponde alla tradizione romana. Abbiamo sperimentato la politica agraria delle tre teste, Bruxelles, Roma, Bologna, o Palermo, ma a imporsi è stata, alla fine, la scelta della “non politica”. La Francia interpreta Bruxelles secondo i propri interessi, a Roma vige l’interpretazione letterale, con divieto di ogni uso di facoltà di giudizio autonomo. Dopo le prime velleità, le regioni hanno seguito Roma, con ferma passività .
Cinquant’anni di ossequio supino alle scelte di Bruxelles sono cinquant’anni senza politica agraria, rilevo: quali ne sono state le conseguenze, per l’agricoltura italiana, chiedo al mio interlocutore. Nonostante la “non politica”, nonostante la nostra agricoltura fosse governata dall’Idra dalle tre teste, nessuna delle quali si preoccupava delle sue esigenze reali, l ’agricoltura italiana è progredita, dichiara Dario Casati, ha espresso una capacità di rinnovamento straordinaria, per forza intrinseca, indipendente da qualunque disegno, piano o programma. Seguo con attenzione la realtà padana, dichiara, e a quella voglio arrestarmi: questa non è l’agricoltura della piccola azienda, è una grande agricoltura moderna. Prendiamo il riso. Aziende con una superficie risicola media di cinquanta ettari non sono piccole aziende. E come il riso è la cerealicoltura, è il latte lombardo. Non credo che tutta l’agricoltura italiana sia altrettanto dinamica, ritengo che tutta la collina, e gran parte del Mezzogiorno, conoscano difficoltà cospicue, ma l’agricoltura di cui sono diretto osservatore esprime un’autentica vitalità. 

Sul futuro, domande inquietanti, nessuna risposta certa

Un’agricoltura vitale nonostante l’assenza cinquantennale di misure specifiche per la sua crescita e il suo sviluppo, rilevo il paradosso. Può apparire liberismo quintessenziale, riconosce Casati, ma bisogna sottolineare che l’effetto delle politiche di Bruxelles, anche se non contribuivamo alla loro definizione, non è stato insignificante, e nella cornice della politica comune questa agricoltura, ribadisco, ha saputo esprimere un autentico dinamismo, ha saputo crescere e progredire.
E per il futuro, chiedo? Cosa possiamo attendere dal confronto sui mercati mondiali senza più i baluardi della politica comune? Le aziende vitali dovranno riconsiderare ancora, severamente, i propri costi, e adeguare ai costi la propria operatività, ma sono convinto, dichiara il mio interlocutore, che possano farlo, che siano in grado di confrontarsi col mercato. A provarlo sono gli affitti liberi: i canoni che conosco sono astronomici, canoni che nessuno pagherebbe se dalla terra non guadagnasse.
Ma reputi possibile, insisto, una produzione agricola vitale senza il supporto di qualunque politica agraria? La produzione agricola nazionale non può arrestarsi, risponde, inequivocabile, Dario Casati: in Italia opera un’industria alimentare imponente, e l’industria alimentare è obbligata, per ragioni logistiche, a effettuare parte cospicua degli approvvigionamenti nelle regioni in cui opera, soprattutto per le produzioni che vantano qualità riconosciute. I nostri pastifici debbono ricorrere, per mantenere alta la qualità, anche al frumento di importazione, ma una parte cospicua hanno comunque convenienza ad acquistarla nelle regioni in cui sono dislocati, o in quelle finitime. Il principio vale, tanto più, per l’industria lattiera e per quella delle conserve alimentari: la nostra produzione di conserve di pomodoro costituisce un contesto economico formidabile: acquista anche pomodori cinesi, e la cosa stupisce e suscita reazioni, ma quanto è il pomodoro che continua ad acquistare in Italia? Tanto: una tradizione secolare fissava l’area padana del pomodoro tra Parma e Piacenza, oggi il pomodoro trionfa a Lodi, e chi ha provato il pomodoro a Lodi, e continua a seminarlo ogni primavera, dimostra che con quella coltura guadagna, che il pomodoro costituisce una soluzione economicamente positiva.
Le aziende delle aree vitali possono confrontarsi col mercato, riconosco, ma quale può essere il futuro dei consumi? La strategia per la sicurezza alimentare varata, nel 1958, a Stresa, è stata cancellata per sempre, siamo tributari ai mercati mondiali di quantità crescenti di derrate essenziali, siccome produciamo una quota sempre minore del fabbisogno nazionale. A quali prezzi dovrà comprare il cibo la famiglia italiana quando sul mercato mondiale Cina e India avranno espresso la propria fame di carne, di latticini, di birra? I nostri acquisti sono compensati, finanziariamente, dalle esportazioni, rileva Casati: beni di valore unitario elevato contro derrate di base. Il nostro rifiuto di accettare i mais di nuova generazione ci ha reso dipendenti per una commodity per la quale godevamo di una felice autosufficienza: importiamo un quarto del mais che impieghiamo, che ci costa l’equivalente di tutti i prodotti i.g.p. che esportiamo, un prezzo elevato. Ma su ciò che possa significare la nuova capacità di acquisto di derrate alimentari dell’Asia esistono prospezioni che si fondano su quanto è accaduto in passato, che solitamente non si ripete. Immaginare che ogni abitante dell’Asia aumenti il consumo di carne di venti chili e moltiplicare quei venti chili per ricavare la quantità di mais necessario a produrre tanta carne conduce a cifre astronomiche, ma non sappiamo quanto mais possa produrre la stessa Asia, e sono troppe le variabili incerte per tentare prospezioni che possano essere attendibili. Personalmente ritengo che, nonostante le incognite, certamente numerose e difficili, l’agricoltura italiana continuerà a produrre, e il consumatore italiano potrà continuare ad acquistare il proprio cibo senza drammatiche rinunce a consumi diversi.

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