lunedì 25 aprile 2016

"L'ASSEDIO DELLA MIRANDOLA"


di Agrarian Sciences


Mappa dell’assedio: la Mirandola è inserita in un triangolo formato da Ferrara, Mantova e Nonantola. A sud (sinistra) solo qualche osteria. I quattro forti costruiti dagli assedianti (papali e imperiali) sono perfettamente collocati.


Tra le prime vittime di tutte le guerre della storia, noi dovremmo  anche ricordare i contadini, i cui campi sono stati saccheggiati e calpestati da uomini, cavalli, mezzi blindati, le cui donne sono state violentate, gli animali trasferiti alle cucine da campo degli occupanti e le cui casupole venivano convertite in avamposti di osservazione poi distrutte. Passato l’esercito, vittorioso o sconfitto, per milioni di contadini, in migliaia di secoli, non rimaneva che l’attesa crudele della morte per fame.
Per ricordare i contadini, prime vittime di tutte le guerre, presentiamo le recensioni de "L'assedio della Mirandola. Vita, Guerra e amore al tempo di Pico e di Papa Giulioa cura di Francesco Salamini e di   
Gianfranco Imbeni
 

Mirandola, la città natale di Pico, nel 1552 è assediata per nove mesi dalle eterogenee milizie di Giulio III, pontefice a Roma che ha mosso contro i francesi e contro il loro alleato Ludovico, conte e signore del feudo di Mirandola (signore in violazione dell’interdetto dell’imperatore Carlo che, dichiarando illegittimo il potere di Galeotto Pico, padre di Ludovico, aveva sancito che non potesse lasciare il titolo agli eredi).

L’incipit della cronistoria dell’assedio della città, che poi diventa una costante agricola-metereologica delle 596 pagine del libro, è pessimistico: “Cosa vuoi vedere ancora? Tutto è rovinato, l’acqua ha portato via bestie e sementi, cosa vuoi cercare ancora?”. La cronaca che segue descrive di contadini ed artigiani, poveri tra i poveri dei tempo, e della vita nelle campagne modenesi: difficile, precaria e, per il poco che oggi cibo e sopravvivenza fisica ci preoccupano, monotona nel mettere al centro della vita quotidiana il pensare al pasto o all’incerto futuro. L’autore della storia, un romanzo di vita rinascimentale, è Antonio Saltini, storico di razza ed estensore, nel passato, della più completa storia delle scienze agrarie scritta al mondo.
Saltini ha consultato le gazzette del tempo per creare quasi in ogni pagina un ordito di storia minima, quasi un sottofondo di quotidianità dal quale emergono i comportamenti, le filosofie, le ambizioni e gli amori delle figure principali. L’intreccio delle traiettorie comportamentali dei protagonisti crea poi la trama del romanzo, interessante quanto basta per sostenere la lettura di tante pagine; l’autore è però, per cultura e sentimenti, più vicino ai contenuti storici dell’evento e dell’epoca che descrive: i francesi in Italia, il Concilio di Trento, il potere temporale della chiesa, le eresie, le lotte per il potere sul feudo, le leghe politiche, il sogno di una Italia non più serva, il Giubileo del 1550 che vede Mirandola sulla strada maestra dei pellegrini tedeschi.

l romanzo è perfetto nella veste editoriale arricchita dall’ inedita ed accattivante serie di disegni di mura e bastioni della Mirandola, eseguiti attorno al 1850 da Giacinto Paltrinieri, disegnatore ed architetto attivo nella città.

Per la tensione emotiva creata dall’autore, che vuole sempre spiegare la genesi degli eventi come derivanti dalla precisa volontà di individui capaci di fare il bene o il male, il romanzo è inusuale per gli standard di lettura moderni. Tra le molte angolature con cui è possibile leggerlo, emergono la possibilità di comprendere la vita dei popolani; la trattazione della cucina del tempo; dei mestieri; del paesaggio agrario; uno spaccato sull’agricoltura post-medievale; la descrizione ricorrente e precisa dell’inverno che fa venire agli occhi il quadro di Albrech Dürer “la tramontana ha raggelato dispiegando al suolo un grande specchio compatto, che riverbera i raggi dei sole ed è segmentato in una geometria multiforme dai filari di olmi, i tralci delle viti appese a festone, le sagome imponenti delle querce, le macchie verdi di edera attorno alle ville sparse nella pianura.”; l’ineluttabilità dell’accettazione per gli umili di un destino che tale li vuole, e che solo la fede può mitigare “pregando i santi perché la neve protegga il frumento, cosicché possa sfamare anche chi ne sparge il seme”.

Il lettore avrà capito che l’estensore di questa nota accredita Antonio Saltini, oltre che dell’obiettività dello storico, di straordinaria capacità evocativa. A dimostrazione di questa sua attitudine, l’autore ha distribuito qua e la nel romanzo una sorpresa: ridando vita a un’arte dimenticata, produce un romanzo popolare in ottave ariostesche, ballata insolita e appassionata. Si legge e si medita anche su un campionario di altre notizie: che teologi autorevoli dichiaravano che i nani non possedevano un’anima; come lo sposare una donna che ha una gemella identica causi l’esilio dalla patria; come Aristotele guidò Alessandro alla gloria; che è inutile disporre del denaro senza sagacia; e molte ancora. Nell’insieme una lettura piacevole e coinvolgente: un libro che ai più vecchi lettori farà ricordare le cose della loro infanzia.



Francesco Salamini



IL TRAMONTO DEL RINASCIMENTO NEL BORGO DI PICO


Antonio Saltini affidò la sua opera narrativa più distesa e ponderosa (L’assedio della Mirandola - Vita, guerra e amore al tempo di Pico e di Papa Giulio) ad un piccolo editore di Reggio Emilia che lo stampò in veste splendida, ma non riuscì ad intraprendere alcun piano di diffusione. La collana in cui lo aveva inserito rispondeva al suggestivo titolo di “Pomerio - Biblioteca padana”, un'insegna che già nel nome evoca i fondali e gli scorci urbani e umani che costituiscono una delle ragioni del fascino del romanzo.
Lo spiazzo che scorre lungo le mura dentro e fuori dalla città fortificata (il pomerio, appunto) era anticamente, sino dal tempo dei Romani, terreno consacrato. Lo si considerava il limite spaziale ma anche spirituale della città; fuori, nella “tagliata” libera da piante e da colture, avevano luogo gli scontri tra assediati e assedianti, e nel romanzo di Saltini vi si erige anche il rogo per Lisabetta, la monaca eretica, affinché all’esecuzione possano assistere sia i cittadini sia le truppe pontificie assedianti.
Il pomerio potrebbe essere assunto allegoricamente come uno dei luoghi spiritualmente centrali dell’opera la quale ci è sembrata privilegiare i momenti delle evoluzioni e torsioni morali dei suoi personaggi rispetto agli avvenimenti in quanto tali, salva restando la dovizia di informazioni cronachistiche anche minute, nelle quali l’autore si destreggia con maestria tale da rivelare una conoscenza storica che ha del prodigioso.
Saltini non padroneggia soltanto l’atmosfera, la temperie di un’epoca (da affermato studioso qual è di storia e politica dell’agricoltura, inglobando in questa disciplina anche i modi della vita sociale e i termini effettuali delle relazioni interpersonali) ma entra con potenza immaginativa, e con la forza della sua anima di credente, nello spirito di chi agisce in prima persona sulla scena del romanzo e in primis nel sentire collettivo di un popolo umile, povero, sottomesso ancorché tradizionalmente (e padanamente) aduso alle malizie oppressive dei ceti dominanti.
Una terribile consapevolezza ci pare sottenda a tutto ciò. Si avverte, sotto lo stile levigato che la scrittura mai dismette, come un ideale di purezza che contrasta con un fondo di innata sensualità. Una vasta componente libresca viene a fondersi con una variegata e assai intensa esperienza di vita nella quale si indovinano tormentati rapporti affettivi ai quali non è estranea la coscienza di una individuale unicità orgogliosa al sommo grado.
L’epoca, la metà del XVII secolo, è sconvolta e insanguinata da guerre di religione. Giulio Terzo viene eletto papa nel 1550, due anni prima del lungo assedio mirandolese (nove mesi) e si affretta (1551) a riconvocare il concilio di Trento sospeso nel 1548 da Paolo III.
Le questioni dottrinali e politiche sollevate dalla Riforma protestante segnano un conflitto insanabile con gli ideali e costumi di vita del Rinascimento. La nostalgia del classicismo, l’anelito alla sua perfezione di stile (che lo stesso John Milton del “Paradiso perduto” ammirerà pur ravvisandovi una deplorevole povertà spirituale) confligge in maniera stridente con i profondi rivolgimenti nella cultura e nella storia europea. E’ in atto una epocale “crisi dei valori”, come la chiameremmo oggi. La caduta del geocentrismo, la critica ai princìpi di Aristotele, le innovazioni mediche (Jacopo Berengario da Carpi, ad esempio, ha pubblicato già nel 1523 le sue Isagogae breves dedicate all’anatomia del cuore), la scoperta del continente americano, stravolgono l’intero orizzonte umano.
Il cambiamento non appare più come uno stato provvisorio a cui possa succedere un ulteriore assestamento del mondo. Per molti la mutevolezza si rivela come condizione tipica della condizione umana, senza possibilità di raggiungere verità e certezze definitive. In un simile precario panorama mentale ci troviamo a dibatterci ancora ai giorni nostri.
Ma secondo altri, al contrario, il problema consiste nel reimpostare il rapporto tra la rivelazione religiosa e l’ambito scientifico in senso lato: all’uomo moderno è concessa la possibilità di dimostrare la piena legittimità della fede rivelata, con quanto ne consegue. La metafisica e la teologia hanno una loro intrinseca credibilità scientifica.
L’assunto è di tale vigore e rigore che non può non determinare una drammatica coerenza di pensieri e di comportamenti.
E’ quanto si manifesta, ci sembra, in quest’ultimo lavoro letterario di Antonio Saltini che è percorso da un ritmo molto consono a quello del suo poema in versi liberi “Apocalypsis”, il suo Giudizio Universale ancora inedito (ma di cui, accedendo al suo sito Internet, si possono saggiare alcuni canti significativi).
Anche nel presente romanzo (nel quale pure è intarsiato un poema in ottave ariostesche) la narrazione di atti e avvenimenti immersi, tutto sommato, nell’umile realtà quotidiana di un borgo agricolo (una piccola Baghdad tra un Tigri e un Eufrate che si chiamano Secchia e Panaro), dove le figure prominenti sono stimatori comunali, procuratori dell’arciprete, notari, gastaldi, fabbricieri o capitani del conte signore, anche qui il racconto assume fin dall’inizio una cadenza che ha del solenne, dell’ineluttabile. L’autore, proprio come nell’Apocalypsis, coniuga i verbi al “presente storico” il cui uso nelle narrazioni, pur riferendosi al passato, rende più vicini e vibranti gli eventi (è il tempo verbale del De bello gallico di Giulio Cesare). Ma il presente storico, attualizzando la vicenda nell’immaginazione del lettore, lo avverte anche che ciò di cui si narra, il suo seme di verità, è ancora qui e ci riguarda tutti nell’intimo.
Qual è precisamente la “degnità” vichianamente intesa (il principio inderogabile, l’assioma) che ad Antonio Saltini preme soprattutto di trasmettere con il suo romanzo?
Sono rarissimi in esso, quasi inesistenti, gli “a parte” con cui l’autore interrompe brevemente il racconto per rivolgersi direttamente a chi legge, quegli stacchi di considerazioni etiche e a un tempo ironiche ai quali, per addurre l’esempio più illustre, ricorre il Manzoni nei Promessi Sposi per suggerire la propria filosofia della storia.
Se esiste anche per Saltini una Provvidenza che “risuona molteplice” come “voce dello Spiro” sui miserandi destini degli umani, essa non viene apertamente esplicitata ma traluce tuttavia vigorosa e ineludibile dai tormenti interiori dei personaggi.
Dalle inquietudini, in particolare, di Annibale Signoruccini, cavaliere in fuga da Imola, verseggiatore per acutezza e magnanimità di quanto gli “ditta dentro”, destinato a diventare ambasciatore della città. Suo è il poema in ottave intercalato al racconto che, più che delle ariose fantasie dell’Ariosto, ritiene degli squarci divini di passione e dei cupi presagi di un Torquato Tasso.
Annibale seguirà un proprio destino di purificazione per riscattare il dovere della fedeltà, dell’amicizia virile, un sentimento eterno (non c’è grande costruzione poetica, fino dalle più antiche, che non lo annoveri tra i temi di fondo) che nell’ “Assedio” però è come sacralizzato da una robusta, superiore credenza.
L’acribia documentaristica, la qualità che prima e più apertamente si impone, fa di quest’opera un esempio purtroppo non consueto (negli anni recenti, unico) di intervento creativo sul terreno degli eventi storici delle nostre terre.
Ma l’inventiva dell’autore, intrisa di passio civile e religiosa, va ben oltre trasferendovi il soffio, e l’emozione, di una fides capace di nobilitare la sua rara, sorvegliatissima urbanitas.




                                                                                                                        Gianfranco Imbeni






https://drive.google.com/file/d/0BwP_NGvxdBA8aTRuQ19xdnN4NXM/view?usp=sharing







"L'assedio della Mirandola" di Antonio Saltini, Diabasis Edizioni, 

Premio Nabokov 2014, sezione narrativa



Motivazione: L’autore è riuscito nell’esercizio di costruzione di un libro di narrativa seguendo regole del passato, ma con la freschezza dello stile contemporaneo.
L’assedio della Mirandola” è un libro unico che unisce la storia, Ludovico Ariosto, le antiche gesta al presente. Oltre al complesso lavoro di ricerca l’opera accoglie disegni, madrigali, poesie.

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