lunedì 29 giugno 2015

Storia della Federconsorzi - Borghesia illuminata o élite massonica?

di Antonio Saltini

2ª  parte
La nascita dei consorzi agrari è fenomeno singolare in un paese che nell’età del grano americano è agitato dai moti per il “macinato”. I governanti sono incapaci di una strategia. Riparano alle carenze i creatori della Federconsorzi, nei quali si può intravvedere la coscienza della borghesia agraria o una minoranza di ebrei e massoni
Nell'analisi più attenta eseguita da un cultore di studi storici della parabola della Federconsorzi, Angelo Ventura ha identificato, nel 1977, nella creazione dell'ordito consortile una prova di maturità della borghesia agraria italiana, che con il radicamento dell'originale formula organizzativa avrebbe dimostrato di percepire le avvisaglie del conflitto tra i propri interessi e quelli della nascente industria chimica, e che per combattere quello scontro si sarebbe schierata nei consorzi.



Un'intuizione e la sua traduzione

Elencando gli indizi che inducono a identificare nei proprietari di medie dimensioni il nerbo delle forze che si raccolgono nei nuovi organismi, nell'articolo pubblicato su Quaderni storici, con coerenza metodologica Ventura sottolinea che la verifica dell'estrazione sociale dei protagonisti della fortunata avventura dovrà essere operata attraverso l'accurata analisi dei libri sociali dei primi consorzi: fino a quando quell'analisi non sia compiuta, qualunque storia della Federconsorzi resta fondata su ragionevoli, eppure volatili congetture.

In attesa che le indagini capaci di tradurre in certezza le supposizioni vengano realizzate non costituisce, forse, esercizio storiografico pleonastico avanzare una proposta di lettura alquanto diversa da quella di Ventura, che meglio di quella di Ventura pare spiegare tanto la subitaneità della nascita quanto la rapidità del disarmo della Federconsorzi di fronte alle imposizioni fasciste: seppure l'indagine circostanziata dovesse dimostrare anche in quell'assunto un'ipotesi parziale, esso non mancherebbe di assicurare un elemento complementare per una interpretazione più esaustiva, quindi meno lontana dal vero. Il filo della lettura che si propone ha origine dalla constatazione della comune professione ebraica del fondatore ideale della Federazione, Luigi Luzzatti, l'antiveggente alfiere di istituzioni di preminente respiro nazionale, creditizie e scientifiche, e del primo presidente, Enea Cavalieri, da quella della comune militanza massonica di un numero considerevole tra i protagonisti dell'avventura, da Giovanni Raineri a Emilio Morandi, rispettivamente primo e secondo direttore generale, quindi secondo e quarto presidente. La sommaria considerazione dei profili biografici induce a individuare, nelle file dei fondatori, la presenza di altri ebrei massoni e di altri esponenti del liberalismo massonico, in numero che pare impossibile sottovalutare.

Attribuire la creazione della Federazione a un manipolo di israeliti e massoni anziché a semplici, seppure qualificati rappresentanti della borghesia agraria, non costituisce mera annotazione sociologica: equivale ad ascrivere la lungimiranza che guida l'impresa a un'elite alquanto ristretta anziché al più ampio ceto dei possidenti e degli imprenditori agrari. Come riconosce Ventura, la Federazione nacque prima dei consorzi, e, come narrano le cronache, alla seduta notarile che suggellò la costituzione le adesioni furono tanto esigue da motivare il malizioso sorriso degli scettici. L'evidenza dei benefici commerciali assicurati dai primi acquisti collettivi avrebbe prodotto l'adesione di schiere più vaste di possidenti, che si sarebbero avvalsi dei consorzi assicurandosi la facoltà, però, di comprare i concimi sul mercato appena fossero offerti a condizioni più vantaggiose. I veri fautori sarebbero rimasti sparuta minoranza, quell' élite   dirigente che la folla dei soci abbandona appena il più rumoroso richiamo al patriottismo di classe chiama la borghesia agraria a serrare i ranghi attorno ai gagliardetti, facendole dimenticare, per incapacità di calcolo, anche il proprio tornaconto.

L'ipotesi dovrebbe essere suffragata, ovviamente, da sicuri elementi di prova. Mentre, peraltro, l'estrazione israelita di Luzzatti e di Cavalieri è dato sicuro, gli elementi che sospingono ad attribuire una militanza massonica a Raineri e a Morandi, come ai loro consorti Bizzozero e Alpe, seppure convergenti, sono volatili, ed andrebbero misurati con tutti i possibili mezzi di riscontro. Le due professioni, in età risorgimentale convergenti, offrono, comunque, una spiegazione seducente del rapido agglutinarsi di volontà e propositi che si verifica, dopo una breve stagione di incontri e assemblee, con la stesura, da parte di Cavalieri, dello statuto, con la sua sottoscrizione, con la dilatazione che trasforma un organismo federale pressoché privo di enti federati nell'asse di una costellazione dalle innumerevoli appendici. Senza una chiave che spieghi la coesione del gruppo dirigente, in tempi di interminabili, sterili dibattiti sulla crisi dei mercati, la serie di eventi apparirebbe quantomeno prodigiosa.


Un parallelismo eloquente

Ricostruire secondo le coordinate suggerite la storia della Federconsorzi equivale a supporre per la maggiore organizzazione dell'agricoltura italiana una parabola analoga a quella che è più agevole stabilire per la Federazione nazionale delle cantine sociali, il consorzio di cooperative enologiche creato nel 1922 da Gino Friedmann, l'avvocato israelita modenese di cui chi scrive ha ripercorso la vicenda per proporne la circostanziata biografia. Assurta rapidamente a realtà significativa, la Federazione viene sciolta negli anni di irrigidimento del Regime, è ricostituita in età repubblicana, ma languisce per l'incontenibile spinta degli organismi cooperativi a raccogliersi dietro gli stendardi dei partiti popolari. Privata dell'adesione dei sodalizi operanti in aree viticole cardinali, la compagine dell'avvocato ebreo si spegne, negli anni '60, mentre le cantine di area cattolica si trasformano in apparato di copertura degli affari vinaccieri dei fratelli Salvo, i famosi esattori di militanza andreottiana, quelle comuniste si convertono nella macchina che alimenta l'effimero business americano del Lambrusco.

La storia dell'avvocato modenese e del suo sodalizio cooperativo è storia emblematica: i Friedmann, antichi finanzieri dei duchi di Modena, sono divenuti proprietari di terre nel circondario dell'abbazia di Nonantola in occasione, verosimilmente, della liquidazione dei patrimoni ecclesiastici, di cui una bolla di scomunica impedisce l'acquisto ai possidenti cattolici. Decidendo di lasciare il foro per l'amministrazione delle aziende di famiglia Friedmann vi impiega peculiari attitudini finanziarie, che fanno di lui agricoltore assolutamente anomalo rispetto ai possidenti di una provincia dall'agricoltura pure evoluta. A distinguerlo è la percezione delle dimensioni nuove del confronto mercantile, quella percezione che lo spinge, grande proprietario, a promuovere cooperative unendo agricoltori di capacità assai inferiori alle sue, per comporre, insieme, un contesto capace di sfidare il commercio sulla frontiera dei prezzi.

La ragione che ha attratto all'agricoltura Gino Friedmann ha condotto a impegnarvisi, presumibilmente, famiglie ebree di province diverse, che sarebbe importante misurare quanto partecipino ai primi cimenti dell'associazionismo agrario. I libri sociali dimostrano la partecipazione di Friedmann, fino alla recrudescenza del Regime, alla vita della Federconsorzi: ove la dimostrazione potesse estendersi ad altri proprietari israeliti, ci si troverebbe di fronte a una spiegazione non priva di significato della vigorosa carica innovativa che contraddistingue la nuova organizzazione. La cui rapida affermazione è il prodotto di un novero significativo di intuizioni e procedimenti sconosciuti alla tradizione della borghesia agraria italiana: al primo posto la cooperazione finanziaria, retaggio tradizionale, invece, delle comunità ebree.


Nella morsa del Regime

All’assunto della lungimiranza della borghesia agraria alla costituzione della rete consortile, Ventura connette, coerentemente, quello del dissenso tra la borghesia agraria e il Fascismo quando questo, con la rivalutazione della lira e il varo della politica corporativa, abiura i principi del liberalismo economico che ha artatamente tollerato. Raineri e Morandi non potevano, sottolinea Ventura, accettare quell'abiura. Come non l'accettarono Raineri e Morandi non l'accettò qualche decina, forse qualche centinaio di proprietari di più solida fede liberale: non pare, tuttavia, che la sua imposizione abbia suscitato resistenze da parte delle compagini sociali costituenti i consorzi, che erano, ricordiamo, liberi organismi amministrati da consigli eletti dai soci, che il Regime trasforma in enti parastatali in cui amministratori scelti dall'alto tra i soci assolvono ai propri compiti annuendo alle decisioni ministeriali.

All'alba del Ventennio i consorzi federati erano seicento: tra seicento consigli di amministrazione le riserve individuali, che non poterono mancare, non si sarebbero in alcun caso tradotte in opposizione? La conversione imposta non avrebbe incontrato resistenze? Costituisce espressione palese di resistenza il convegno che Morandi convoca a Montecatini, nel 1925, per ribadire il valore dei principi ispiratori della compagine, l’ultima manifestazione di vitalità del manipolo dei fondatori. Di quel convegno si dovrebbero rintracciare gli atti, come si dovrà, per dare risposta alle domande capitali sull’esclusione della classe dirigente originaria, svolgere l'esame più penetrante delle vicende dei singoli consorzi, concentrando l'impegno su quelli che avevano realizzato più significativi risultati commerciali.

Una ricerca eseguita a Ferrara ha dimostrato che nella città, patria di Cavalieri, esisteva un consorzio che i luogotenenti di Balbo condannarono all’estinzione, sottraendogli linfa associativa, che convogliarono in un organismo nuovo, cui diedero vita nel 1926. Contando sull'appoggio del vertice della Federazione, dove, espulso Morandi, sedevano un commissario e un vicecommissario in camicia nera, ottennero che l'organismo federale annullasse i propri rapporti con l'ente ferrarese tradizionalmente affiliato, per assicurare l'esclusiva della propria rappresentanza al nuovo consorzio di marca fascista.

Perché i capitani degli agricoltori ferraresi non si impossessarono dell'organismo esistente, e affrontarono il più laborioso impegno di fondare un consorzio nuovo, cui accollarono, per rassicurare soci sempre sospettosi, i debiti del primo? La duplicazione fu risposta a un'opposizione ideale o fu precauzione dettata dal bilancio di un organismo indebitato? La cura, di luminosa matrice squadrista, di distruggere i libri sociali del primo organismo, di cui nessun archivio ferrarese conserva traccia, rende le due domande insolubili. La circostanza potrebbe essere indizio di una resistenza: ove si voglia provare, peraltro, che qualche resistenza all'espropriazione dei consorzi la borghesia agraria avrebbe opposto, l'indagine dovrà verificarlo ricostruendo la storia dei dieci, venti sodalizi che costituivano, attorno alla Federazione, il drappello d’avanguardia.

Ma sui rapporti tra borghesia agraria e Fascismo un'altra domanda si impone. Ove il contesto dei consorzi fosse creatura genuina, quale sostiene Ventura, della borghesia agraria, lo stesso ceto non vantava, verso il Fascismo, benemerenze tali da meritargli la conservazione dell'organismo economico creato per tutelarne gli interessi mercantili? Se vi avesse identificato un patrimonio di classe, come avrebbe potuto accettarne prima l'affidamento a un commissario, poi la statalizzazione, nelle forme successive che essa assumerà con le riforme di Rossoni e di Pareschi? Divergenti nelle forme, i due ordinamenti del contesto consortile imposti dal Regime convergevano, si deve rilevare, nell'ispirazione statalista.


Labari e perfosfato

In attesa che vengano intraprese le indagini necessarie a rispondere al quesito seduce chi ne misuri le implicazioni il giudizio che Renzo De Felice esprime in
Mussolini, il fascista, il terzo segmento della monumentale opera sul Ventennio. Analizzando le reazioni degli ambienti economici alle scelte che preparano, dopo il discorso di Pesaro, la rivalutazione della lira, il massimo studioso del Fascismo annota che a confronto dell'accorta strategia della Confindustria colpisce la mancanza di un atteggiamento coerente degli agricoltori, che si avviano a subire le conseguenze della rivalutazione, che si tradurranno nella più grave crisi agraria, con fiera, o, se si preferisce, "fascistica" ottusità.

Il ceto che ha compreso, con antiveggente tempestività, la necessità di stringersi a falange per contrastare lo strapotere industriale sarebbe incapace di accorgersi che quel potere, controllato a vista per trent'anni, sta per conquistare, nel confronto economico che ferve dietro la retorica della "quota novanta" una preminenza sconosciuta dalle origini del conflitto? La risposta affermativa appare scarsamente verosimile. Non è più coerente supporre che, emarginata l'elite ebrea e massone che, dotata di acuta percezione finanziaria, ha avuto in consegna, per una parentesi quarantennale, le sorti dell'agricoltura, possidenti e imprenditori siano soggiogati dalla retorica che ne blandisce, abilmente, i preconcetti antichi? Obbedienti alla missione fatale che li erige a barriera contro il "bolscevismo", avrebbero dimenticato di controllare il dare e l'avere tra l'economia agraria e la società Montecatini, il cui presidente avrebbe goduto di credito maggiore, presso il Duce, dei gerarchi che capeggiano, successivamente, le confederazioni agrarie.

Le due tesi non sono necessariamente confliggenti. Ipotesi che le contemperino sono agevolmente immaginabili: siccome la ricerca storica non può mancare dell'esercizio dell'immaginazione, ma deve risolversi nel confronto con i dati, rimettiamo a chi della compagine consortile indagherà vicende e circostanze la verifica di quale sia stato, nel procedere dei decenni, il ruolo dell'elite che dell'impresa concepì il disegno, quale quello degli strati sociali che vi aderirono. Quanto impegno e perseveranza dovesse costare, la ricostruzione della vita dei consorzi e della relativa Federazione ci dischiuderà la comprensione della vicenda più significativa della storia agraria dell'Italia unita.




Antonio Saltini 
Docente di Storia dell'agricoltura all'Università di Milano, giornalista, storico delle scienze agrarie. Ha diretto la rivista mensile di agricoltura Genio Rurale ed è stato vicedirettore del settimanale, sempre di argomento agricolo, Terra e vita. E' autore della Storia delle Scienze Agrarie opera in 7 volumi. www.itempidellaterra.com

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