lunedì 31 agosto 2015

Trasformazioni della società europea alla fine del Medioevo. La Peste Nera e la crisi del Trecento

di FRANCESCO SALVESTRINI  


Immagine 1, Galleria Nazionale della Sicilia, Palazzo Abbatellis, 
Trionfo della Morte, metà del sec. XV, affresco staccato.


Dopo un lungo periodo di inspiegabile disattenzione, da ormai oltre un cinquantennio gli storici hanno attribuito alla pandemia di peste che si abbatté sull’Europa fra il 1347 e il 1351 un significato che può dirsi senza dubbio epocale. Ancor più di recente la gigantesca emergenza sanitaria è stata inserita nel più vasto contesto della crisi agraria che il continente conobbe a partire dalla fine del Duecento e che chiuse, pur con diversi livelli di intensità fra vari contesti territoriali, il periodo di incremento demografico ed economico di cui l’Occidente aveva goduto almeno dal secolo XI. 
 
La crisi, intorno alla cui esistenza e alle cui caratteristiche gli studiosi ancor oggi si interrogano ponendosi su posizioni alquanto differenziate, investì la compagine demografica e il settore primario, per poi estendersi ad altre strutture economiche e sociali. Le motivazioni di questi fatti sono state indagate a più riprese e si possono riassumere in alcuni punti essenziali: un sensibile peggioramento climatico interessò buona parte dell’Europa centrale e mediterranea già dal tardo Duecento, con inverni rigidi ed estati umide che provocarono gravi penurie frumentarie e, più in generale, alimentari, soprattutto negli anni 1315-18. La popolazione era andata fino ad allora crescendo. In Francia, nelle Fiandre e nell’Italia centro-settentrionale risultava relativamente alta la percentuale di coloro che vivevano nelle città. Le tecniche dell’epoca non consentivano un incremento significativo delle rese agricole se non attraverso l’estensione degli spazi coltivati. Per disporre del nutrimento necessario erano state dissodate vaste aree boschive, si erano bonificate alcune zone paludose e si era estesa la produzione cerealicola a suoli d’alta quota poco adatti allo sviluppo dei vegetali panificabili. Lo sfruttamento degli ecosistemi non consoni all’impianto delle colture aveva accentuato la precarietà del già difficile equilibrio esistente fra gruppi umani e risorse disponibili, accrescendo il rischio di ricorrenti carestie. Ad un’estesa popolazione corrispondevano bassi salari, che avevano accentuato la distanza fra ricchi e poveri. Ciò aveva favorito l’immigrazione dei ceti rurali in città e la crescita delle sacche di indigenza nelle periferie dei tessuti urbani.
Il XIV secolo sperimentò un incremento del pur allora endemico stato di guerra. Gli scontri fra gli organismi politici nazionali e regionali si fecero più cruenti e soprattutto più duraturi. Basti pensare alla guerra dei Cento anni tra Francia e Inghilterra (1337-1453), ai conflitti dinastici e a quelli contro i musulmani nella penisola iberica, alle lotte angioine-aragonesi del Sud Italia, al ricorrente clima di belligeranza tra Genova e Venezia o alla piaga delle compagnie di ventura, gruppi di mercenari giunti in Italia da tutta Europa, che prosperavano nei contrasti tra le città guelfe e ghibelline.
Su una popolazione indebolita dalla fame, dalle carestie e dalle guerre andò a riversarsi il flagello della peste (dal latino peius, la ‘malattia peggiore’). Poiché i contemporanei designavano con tale termine varie forme di epidemia, è dalla descrizione dei sintomi (bubboni ai gangli linfatici, macchie scure e livide, vomito, convulsioni, febbre, delirio e, nella maggior parte dei casi, morte) che si è potuto identificare soprattutto nella peste bubbonica – o in un misto di peste bubbonica e polmonare – la malattia che sconvolse l’Europa alla metà del Trecento.

Il morbo giunse da Oriente, dove era sostanzialmente endemico. Il batterio che lo generava, la Yersinia pestis, trasmesso dalle pulci viventi sulla pelliccia dei topi selvatici, che in condizioni particolari possono infettare anche l’uomo, sopravviveva bene in climi caldi e umidi e in ambienti oscuri, per cui trovò nelle stive delle navi e nelle abitazioni buie e sovraffollate un terreno ideale di sviluppo. Lungo le rotte commerciali rese più sicure dalla dominazione mongola la peste viaggiò dai focolai originari dell’Asia centrale verso Occidente, seguendo probabilmente le vie della seta. Nel 1347 i Tartari che assediavano la colonia genovese di Caffa in Crimea catapultarono sulla città cadaveri infetti. Le navi genovesi in partenza da questa località diffusero il contagio nei porti presso i quali erano solite fare scalo: da Trebisonda sul mar Nero a Costantinopoli, da Messina a Marsiglia, fino al capoluogo ligure. Fra gli ultimi mesi del 1347 e l’estate dell’anno successivo l’epidemia si diffuse con una rapidità impressionante da alcuni centri rivieraschi come Pisa, Venezia e Ragusa (Dubrovnik) verso i rispettivi entroterra, colpendo soprattutto l’Italia, la Francia a partire dalla valle del Rodano, l’area renana, la penisola iberica e l’Inghilterra. Nonostante i tentativi di circoscriverne la penetrazione, nel 1349 la peste raggiunse le Fiandre, la fascia alpina e l’Ungheria. L’anno dopo si manifestò anche sul Baltico, in Scandinavia e in Russia. Da un quarto a un terzo della popolazione europea (grosso modo trenta milioni di individui) perì nel corso di quegli anni.
Non conoscendo le cause reali dell’infezione, gli uomini si affidarono ai chierici e ai sapienti, i quali insisterono sulle motivazioni etico religiose (i peccati degli uomini), sulle congiunzioni astrali e sulle possibili macchinazioni di ebrei (soprattutto in Germania), musulmani, streghe e maghi. Non mancarono neppure i pronunciamenti dei medici, come il Compendium de epidemia (1348) reso pubblico dallo studio parigino. In linea generale si pensò che il morbo si diffondesse attraverso l’aria. Per questo alcuni personaggi, specie quelli di più elevata estrazione sociale (basti pensare alla brigata di giovani descritta da Giovanni Boccaccio) rifuggirono la grande moria ritirandosi nelle dimore di campagna ed evitando gli assembramenti di folla, del resto vietati da molte autorità cittadine, oppure, al contrario, favoriti dal clero, che riuniva il pubblico all’ascolto dei predicatori e indiceva processioni e celebrazioni liturgiche volte ad invocare la clemenza divina. Gli effetti sulla collettività furono devastanti. L’altissima mortalità spezzò le forme della solidarietà familiare e le convenzioni sociali, decimò gli uomini di Chiesa, inferse un duro colpo alle attività economiche, compromise la tenuta e il funzionamento delle istituzioni politiche. Si manifestarono comportamenti edonistici e disordinati, oppure forme plateali e talora isteriche di devozione. Emersero gruppi di flagellanti ed altri più o meno spontanei movimenti penitenziali, i quali, sorti fin dal pieno Duecento, conobbero, nonostante la censura ecclesiastica, una notevole diffusione. Essi prosperarono ancora durante la seconda metà del Trecento (ricordiamo il moto italiano dei ‘bianchi’, 1399-1400), favoriti dalle successive ondate di contagio che, sia pure con minore o comunque alterna intensità, falcidiarono la popolazione ancora alle soglie del Quattrocento, facendo dei focolai di peste una realtà endemica in Occidente fino almeno alla metà del XVIII secolo.
La peste non si manifestò ovunque con la stessa intensità. L’Italia risultò il paese maggiormente colpito. Ne risentirono soprattutto le città costiere e quelle al centro della Penisola; laddove, invece, Milano scampò il contagio, e alcune aree remote dell’arco alpino o dell’Appennino vennero in parte o del tutto risparmiate. In ogni caso la ripresa demografica fu ostacolata dalle successive riproposizioni del flagello. Basti ricordare quella che in Inghilterra venne definita ‘peste dei bambini’ (1363-64), così chiamata perché colpì soprattutto coloro che, essendo nati dopo il 1348-50, non si erano immunizzati nella prima ondata epidemica. Notevole fu lo spopolamento di villaggi, castelli e città, un fenomeno particolarmente evidente (anche perché più studiato) in Inghilterra, Germania, Italia centrale e meridionale, Francia e Scandinavia. Vennero abbandonate le aree meno adatte allo sfruttamento agricolo, e in molte regioni l’incolto prativo e boschivo conobbe una significativa espansione. L’allevamento iniziò un processo di crescita a scapito dell’agricoltura; e la dieta della popolazione, ormai meno numerosa, poté sensibilmente migliorare. Nelle città dell’Italia comunale gli effetti della tragedia furono più evidenti e quasi spettacolari. Le cinte murarie realizzate durante la prima metà del Trecento finirono per racchiudere al loro interno spazi inedificati che restarono tali, in alcuni casi, fino alla fine dell’Ottocento, come avvenne a Firenze, che passò dai circa 120.000 abitanti del primo secolo XIV ai 37.000 degli inizi del Quattrocento. In Germania e nell’Europa centrale, paesi caratterizzati da una minor presenza di centri urbani, le conseguenze del morbo furono meno gravi. Centri urbani di rilievo come Praga, Norimberga e Würzburg non furono investiti. Parigi ed altre città francesi sembrano, invece, essere state più colpite dalle ricorrenti epidemie della seconda metà del secolo.
Il brusco calo demografico creò vuoti spaventosi nell’ambito di determinati ceti sociali e categorie professionali. I coloni, divenuti pochi e quindi preziosi, infersero gli ultimi colpi alle strutture della signoria rurale, ulteriormente indebolita dal calo del prezzo subito dai generi alimentari. Una parte dell’aristocrazia impoverita si dedicò allora al banditismo di strada, contribuendo all’incertezza e all’indebolimento dei commerci. Sia in campagna che in città crebbe il potere contrattuale dei lavoratori. Ciò si tradusse in nuove espressioni del malcontento che si configurarono talora come tentativi di sovvertimento dell’ordine sociale. È quanto avvenne nelle aree rurali della Francia centro-settentrionale col movimento della Jacquerie (da Jacques Bonhomme, sinonimo di contadino, 1358), nel corso del lungo conflitto contro l’Inghilterra, allorché proprio gli insuccessi accumulati dalla cavalleria francese durante la prima fase della guerra contribuirono ad accendere l’odio verso la nobiltà feudale. Oltremanica l’imposizione di una poll tax (1381) provocò ribellioni dei contadini in parte capeggiati da esponenti del clero predicanti inedite forme di comunismo dei beni e di giustizia sociale. Ancor più radicali furono i movimenti chiliastici boemi, che trovarono espressione nel radicalismo religioso dei Taboriti. Le città italiane e quelle delle Fiandre conobbero forme di emancipazione dei lavoratori addetti soprattutto alla manifattura tessile. Qui, infatti, si generarono sommosse di una certa consistenza a Lucca (1369), Siena (1371), Genova (1383 e 1399), Verona (1390). Il più noto fra i tumulti, quello dei Ciompi fiorentini del 1378, evidenziò l’acquisizione di un’embrionale forma di ‘coscienza di classe’ negli strati più bassi dei lavoratori della lana, i quali giunsero a rivendicare il diritto ad esprimere una loro ‘arte’, ossia un’associazione di mestiere, e quindi a partecipare, tramite questa, al governo della città. Tali movimenti spaventarono profondamente la borghesia artigiana e mercantile. Ne derivò, in Italia, una forte concentrazione del potere nelle mani di oligarchie che determinarono il definitivo esautoramento delle istituzioni comunali e il progressivo avvento delle signorie cittadine; nonché, in Francia e in Inghilterra, il rafforzamento del controllo regio sulle città.
Prima della Seconda Guerra mondiale si è pensato alla crisi trecentesca soprattutto come a una congiuntura di tipo malthusiano, per cui l’aumento della popolazione, superiore a quello dei mezzi di sussistenza, avrebbe generato un progressivo scompenso di cui la peste sarebbe stata un elemento regolatore volto a ristabilire l’equilibrio alterato. In epoca più recente ci si è, invece, interrogati in merito ad una più vasta gamma di spiegazioni, arrivando anche a negare, almeno per alcune parti d’Europa, l’esistenza stessa di una crisi. Nell’opinione di alcuni studiosi la diminuzione della popolazione favorì, in linea di massima, la crescita del reddito pro capite; così come l’arretramento del coltivo e la diffusione dell’allevamento contribuirono a rendere più varia e migliore la dieta. Inoltre nelle principali città dell’Italia comunale la contrazione della produzione artigianale fu in parte compensata dall’aumento della qualità, specie per quanto riguardava l’importante settore tessile. Più che di crisi si parla ormai di trasformazione, che interessò non solo la consistenza demografica e le basi dell’economia, ma anche l’evoluzione delle compagini statuali e la dinamica delle differenti strutture sociali. Certamente la semplificazione del quadro politico continentale fu favorita dalla peste, poiché in un contesto complessivamente meno ricco di popolazione alcune grandi città italiane realizzarono più facilmente vasti domini regionali che furono alla base degli stati peninsulari d’Ancien Régime; così come risultò possibile alle monarchie europee raggiungere in Francia, in Inghilterra, in area iberica e in Russia, estensioni notevoli e dimensioni nazionali.



Immagine 2, Archivio di Stato di Lucca, La peste, miniatura dal codice 
de Le Croniche di Giovanni Sercambi, seconda metà del sec. XIV.























In ogni caso l’Europa, soprattutto quella mediterranea, non riuscì per lungo tempo a riprendersi dal colpo che le infersero la crisi e la pandemia. Molte città della Toscana e dell’area padana non recuperarono, se non in età contemporanea, il livello di popolamento che avevano raggiunto all’inizio del Trecento. Da certi punti di vista il Rinascimento italiano fu costruito sulle rovine della ben più ricca e popolosa realtà medievale; e – stando all’opinione di alcuni storici – la crescita di interesse da parte delle élites cittadine per l’arte, l’architettura, la cultura e il lusso fu un fenomeno collaterale all’immobilizzazione dei capitali e alla contrazione della precedente imprenditorialità economica. In questo senso la crisi del Trecento e la peste del 1348, pur nell’incertezza di differenti interpretazioni, restano fenomeni di portata continentale che segnarono la fine di un lungo periodo storico il quale, soprattutto a causa della cupa immagine proiettata da quegli eventi sulle generazioni successive, assunse i connotati dell’età buia per antonomasia che ancora oggi l’opinione comune continua spesso ad attribuirgli.


Bibliografia

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Francesco Salvestrini
Professore associato di Storia Medievale all’Università di Firenze, si occupa di storia del monachesimo nell’Europa del pieno e tardo Medioevo, di storia politica e sociale dell’Italia comunale, di storia dell’ambiente in epoca medievale e protomoderna, con particolare riferimento alle relazioni fra insediamenti umani e bacini fluviali; nonché di storia della storiografia e dell’erudizione storica sulla Toscana medievale.
Francesco Salvestrini, Dipartimento di Storia Archeologia Geografia Arte e Spettacolo (SAGAS), università di Firenze.francesco.salvestrini@unifi.it
. Tel. 3355473851 


 

1 commento:

  1. Mi permetto di inserire nella bellissima comunicazione del Prof. Salvestrini una considerazione prettamente agronomica, la cui premessa la ricavo da Mazoyer e Rudart e contenuta nella loro “Histoire des agricultures du monde”.

    Nel periodo precedente la grande epidemia si era realizzata la rivoluzione agricola medievale basata su un “sistema agricolo ad attrezzatura leggera (vanga e zappa) con riposo dei terreni (complesso Ager, Saltus e Silva)”. Ciò aveva dato origine ad un aumento sostanzioso della demografia, solo che agli inizi del 1300 ormai questo equilibrio si era rotto: la popolazione era aumentata più delle risorse.

    Per spiegarlo ricorro all'esempio fatto dai due autori: essi partono dall'assunto che per mantenere un famiglia di 5 persone occorreva disporre di 10 q/anno lordi di equivalente cereali. Per produrli occorrono 6 ettari di ager (3 coltivati e 3 a riposo). Solo che i tre a riposo dovevano essere concimati per mantenere la fertilità, ma per farlo occorrevano o tre capi grossi bovini o 15-18 capi ovini i quali di giorno si sarebbero pascolati nel saltus e di notte venivano confinati nell'ager non coltivato (ager a riposo). Vi era quindi un bisogno di una superficie a pascolo calcolata intorno ai 9 ettari. Vi erano anche dei bisogni di legna che gli autori calcolano in 0,2 ettari/persona. In totale quindi occorreva disporre di 16 ettari (6 ager + 9 saltus + 1 silva). Essi calcolano che a ciò corrispondesse una popolazione di 30 abitanti per kmq se consideriamo il suddetto calcolo valido per climi come il Centro-nord Italia. Se invece scendiamo nel meridione gli ettari da avere a disposizione aumentano a 26 perchè raddoppiano gli ettari a saltus (meno piovosità) ed a silva (boschi più radi). Ecco che subito la densità di popolazione mantenibile cala a 20 abitanti per kmq.

    In definitiva il disequilibrio Popolazione/risorse aveva provocato disboscamenti, messa in coltura di terreni marginali, concimazione sempre più insufficiente per scarsità di animali. In altri termini la popolazione aumentava e le risorse diminuivano ed il sistema agrario era non innovabile; ecco le carestie e le penurie di cibo, una popolazione fisicamente debilitata e più facilmente soggetta alla sopravveniente epidemia.

    Eccovi la mia considerazione: a me pare di intravvedere oggi una situazione molto simile a livello mondiale, solo che le soluzioni che i popoli satolli propongono vanno in controtendenza. Si propone l'agricoltura biologica, quella biodinamica ed ultima trovata di certi soloni, l'estensione dell'agricoltura famigliare come capace di nutrire il pianeta. Questi soloni non riflettono però che le agricolture famigliari del terzo mondo attuali sono a livello dei sistemi di agricoltura ad attrezzatura leggera (zappa e vanga) con incolto poco concimato e non usciranno da questa condizione finchè rimarranno con la sola forza famigliare a disposizione, cioè non riusciranno mai ad accantonare un minimo di risorse per comprare per molti già un bue o un bufalo da traino e tanto meno un motocoltivatore attrezzato.

    Quindi, e questo è il mio parere, la soluzione per nutrire i 9/10 miliardi di persone tra 30/40 anni (quindi non secoli) resta l'impostazione di un'agricoltura produttiva e durevole, cioè che non scarta nessuna innovazione che favorisce l'aumento di produzione e non intacca la durabilità del sistema agricolo.

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