lunedì 7 giugno 2021

Animalismo, piantismo e iper-veganismo, fra realtà e science fiction

di Luigi Mariani

 

Come riflettere sulla storia dell’agricoltura può proteggerci da strane derive

 

 

Riassunto
L’articolo prende le mosse da uno scritto di James Mc Williams che parla di alcuni filoni del pensiero animalista statunitense ed in particolare di quello che mira a produrre l’estinzione degli animali domestici perché esseri aberranti asserviti all’uomo e di quello che invece mira ad attribuire agli animali diritti che oggi sono un'esclusiva degli esseri umani. Inoltre partendo dalle riflessioni di Stefano Mancuso in tema di neurobiologia vegetale si individua il termine piantismo per qualificare la corrente di pensiero che pone al centro della propria riflessione l’intelligenza vegetale. Lo sbocco naturale di animalismo e piantismo potrebbe paradossalmente essere quello di un iperveganismo che rifiuti l’uso di animali e vegetali a scopo alimentare per adottare fonti alternative di cibo che la tecnologia attuale è probabilmente in grado di garantire, come discusso nel testo. 

Contro tali derive che, oltre a portare il genere umano sempre più lontano dalle sue origini onnivore sono potenzialmente in grado di causare rilevanti problemi in termini di sicurezza alimentare globale (si pensi a cosa accadrebbe di coloro che vivono del prodotto dei 3 miliardi di ettari di pascoli se la zootecnia venisse messa al bando), occorre riaffermare l’immenso valore storico e culturale della rivoluzione neolitica e della domesticazione vista come simbiosi mutualistica dell’uomo con piante e animali. Porre oggi in discussione la rivoluzione neolitica come fa Mc Williams che citando Jared Diamond definisce la nascita l’agricoltura come il “peggior errore della storia della specie umana” attesta il livello di disorientamento che oggi caratterizza la società statunitense e più in generale le società occidentali.

Summary

ANIMALISM, PLANTISM AND IPER-VEGANISM, 
BETWEEN FANTASY AND REALITY
How a reflection on agricultural history can protect us from strange drifts

This work begins with a discussion about an article of James Mc Williams that speaks of some lines of thought of the  animalism in the USA and more specifically the line which intends to produce the extinction of domestic animals because considered  aberrant beings subservient to man and the other line which seeks to give to these animals a lot of rights that today are exclusive of humans. Moreover starting from some reflections of Stefano Mancuso we adopted the term plantism to describe the current of thought that centers its reflection on the intelligence of plants. In our view animalism and plantism could paradoxically converge and culminate in an iper-veganism that rejects the use of animals and plants as human food and adopt alternative sources of food 
that the current technology is probably capable of supporting, as discussed into the text. Against such drifts that lead mankind farther and farther away from its origins of omnivore and can potentially produce relevant problems for global food security(please think what would happen to people that exploit the 3 billion of hectares of pastures if livestock breeding was banned), in our opinion it is necessary to reaffirm the immense historical and cultural heritage of the Neolithic revolution and the domestication seen as mutualistic symbiosis of man with plants and animals. Put into question the Neolithic revolution as does Mark Williams that quoting Jared Diamond defines the birth of agriculture as the "worst mistake in the history of the human species" states the degree of disorientation that characterizes US society and more generally Western societies.



Premessa  
In analogia con quanto accaduto in medicina con riferimento alle medicine alternative, gli ultimi decenni hanno visto l’affermarsi di una pletora di agricolture ideologiche e di movimenti culturali e stili di consumo ad esse connessi: animalismo, agricoltura biodinamica, agricoltura biologica, agricoltura musicale, macrobiotico, permacoltura, veganismo, agricoltura urbana, consumo di alimenti biologici. Questo fenomeno, per quanto interessante sul piano socio-culturale perché attesta un diffuso interesse della collettività per il settore agricolo, è da ritenersi nel suo complesso negativo in quanto si fonda su una diffusa ignoranza dei meccanismi fisiologici ed ecologici da cui dipendono la produzione vegetale ed animale, un’ignoranza che potrebbe essere facilmente superata leggendo un testo di agronomia generale e riflettendo sui temi da esso affrontati e discussi.
Peraltro l’aspetto legato agli stili di consumo sottende da un lato l’idea di creare segmenti di mercato elitari e con prezzi al consumo assai elevati e dall’altro azioni di lobbying che mirano ad accrescere il regime di aiuti nei confronti di queste “agricolture alternative”, le quali a detta dei propugnatori avrebbero vantaggi ambientali enormi (anche se spesso tutti da dimostrare) ma che hanno sicuramente l’enorme svantaggio di presentare una produttività alquanto ridotta e che fa a pugni con la necessità di sopperire ai fabbisogni di cibo e beni di consumo di un’umanità oggi soggetta a un’incessante crescita demografica.
L’immaginazione, come vedremo nel seguito di questo scritto, può aiutarci a prevedere la genesi di nuove forme di agricoltura e nuovi stili di consumo, genesi che è destinata ad assumere in futuro ritmi sempre più incalzanti in ragione del crescente distacco fra mondo rurale, sede della produzione agricola, e mondo urbano, sede di produzione di mode, stili, miti e riti.
In ragione di ciò credo che una visione storicamente fondata del processo evolutivo che l’agricoltura ha subito dalla rivoluzione neolitica (domesticazione di piante e animali) alla rivoluzione verde (messa a frutto le scoperte del XIX secolo nei settori della genetica, della nutrizione vegetale, della chimica agraria, della meccanica, ecc.) potrebbe essere di enorme utilità per mantenere una visione razionale del processo produttivo agricolo che eviti di compiere scelte strategiche errate che avrebbero effetti dirompenti sulla sicurezza alimentare globale.
Per questa ragione la storia dell’agricoltura dovrebbe avere oggi uno spazio ben maggiore di quello in realtà occupato a livello accademico e più in generale nel dibattito su attualità e prospettive del settore primario. Con ciò si valorizzerebbe la storia come strumento di cui una comunità dispone per riflettere sul proprio passato allo scopo di interpretare il presente e progettare il futuro. 

“Estinzione degli animali domestici” e “cittadino animale”: due correnti dell’animalismo statunitense 
Su consiglio di un amico ho letto un ampio articolo dal titolo “Potere animale” apparso sul settimanale INTERNAZIONALE (numero del 16-22 dicembre 2016) e firmato da un docente di storia della Texas State University, James Mc Williams. In tale articolo si presentano alcuni filoni ideologici propri dell’attuale animalismo americano.
Ho scoperto così che esiste una corrente animalista che sostiene la necessità della totale scomparsa degli animali domestici, in quanto si tratterebbe di una forma di sfruttamento intollerabile e che fa degli animali dei servi dell’uomo. In sostanza secondo questa linea di pensiero - di cui come intellettuale di spicco viene citato Gary Francione, filosofo e docente di diritto alla Rutgers universty - non solo bovini, suini, ovi-caprini e animali di bassa corte dovrebbero scomparire ma anche i cani guida per i ciechi, i cani da slitta e quelli da valanga, le api domestiche, i bachi da seta, le cavie usate per i test preliminari sui farmaci e così via. Questo perché gli animali domestici sarebbero da considerare qualcosa di aberrante e indegno di essere conservato. A corollario di tali concetti Mc Williams cita anche il pensiero della socio-psicologa Melanie, secondo la quale la domesticazione degli animali sarebbe frutto del “predomino maschile” e dunque, a maggior ragione, deprecabile in nome del politicamente corretto.
Un’altra corrente, che trova espressione nel libo “Zoopolis, a political theory of animal rights” di Will Kumlicka e Sue Donaldson, arriva al contrario a sostenere l’estensione agli animali di una vasta gamma di diritti (cibo, assistenza sanitaria, libertà di movimento, ecc.) giungendo perfino ad adombrare l’idea del diritto di voto, da garantire tramite garanti umani che surroghino gli animali, considerati alla stregua di esseri umani con forme di disabilità che impediscono l’espressione del proprio pensiero.
Al riguardo mi domando cosa accadrà alla cittadina gallina o al cittadino topo quando il cittadino gatto o la cittadina volpe sfogheranno su di loro i loro istinti sanguinari e se dovranno a questo punto esistere tribunali in grado di perseguire tale palese violazione di diritti e con quanti gradi di giudizio e se il tribunale sarà composto da umani o da animali… E che dire poi per il rispetto dovuto ad animali senzienti e molto sensibili come ratti, topi o scarafaggi? A quando la proposta di un garante per queste simpatiche bestiole?
Insomma, un vero barnum, una follia che solo a pensarci viene da sbellicarsi dalla risate, giusto per non deprimersi pensando all’inutile spreco di energie intellettuali di chi impegna il proprio pensiero in tali strampalataggini.
Peraltro mi pare di capire che tali correnti di pensiero si innestano sul filone di un movimento vegano che oggi rifiuta totalmente i cibi di origine animale (ivi compresi latte e uova), trascurando con ciò il fatto attestato dalla paleontologia che la nostra è una specie onnivora ad iniziare dai nostri progenitori più remoti, i proto-primati del genere Purgatorius, vissuti 60-70 milioni di anni orsono.
Quello che mi sarei tuttavia aspettato da Mc Williams in quanto storico è una lettura critica di tali ideologie proprio alla luce dell’insegnamento che ci viene dalla Storia che lui stesso, a quanto pare, insegna. Al contrario ho colto nell’autore un’empatia che lo spinge non solo a considerare la domesticazione degli animali come una “catastrofe ecologica”, in quanto gli animali domestici consumano un’enorme mole di risorse, ma addirittura a definire, citando con questo una stravagante affermazione di Jared Diamond, la nascita l’agricoltura come il “peggior errore della storia della specie umana”. E qui non posso non ricordare come l’eden paleolitico fosse un “paradiso” molto esclusivo (la popolazione italiana si limitava a poche migliaia di esseri umani), in cui la stabilità demografica e l’equilibro con l’ambiente erano garantiti da una mortalità elevatissima e da fame, freddo e sofferenze di tutti i generi. 

Intelligenza vegetale e piantismo
Se dal mondo animale passiamo a quello vegetale, mi preme segnalare che negli scorsi mesi ho avuto a più riprese modo di veder proposto sul Corriere della sera il pensiero di Stefano Mancuso, cattedratico dell’Università di Firenze e direttore del Laboratorio Internazionale di Neurobiologia vegetale, il quale sostiene che le piante sono esseri che hanno indirizzato la loro intelligenza in direzione diversa da quella propria di animali e uomo e dalle quali dovremo prendere tutti esempio. Da qui credo derivi la cosiddetta "agricoltura musicale" che promuove l'"ascolto" della musica classica da parte delle piante coltivate (la vite ad esempio) allo scopo di ottenere un incremento (in realtà tutto da dimostrare con metodi sperimentali rigorosi) nella qualità e quantità delle produzioni.
Ad esempio sul Corriere del 13 novembre 2016 in un articolo a firma di Irene Soave, leggo queste affermazioni del professor Mancuso: “i nostri giardini sono dei veri centralini di comunicazioni: le piante fra loro parlano con odori e impulsi elettromagnetici. Le piante hanno scelto evolutivamente di non potersi muovere, per risparmiare energia. Ciò le costringe a comunicare con le vicine e ad avere una sensibilità che non viene da un cervello o da un cuore: gli organi rendono vulnerabili ai predatori e le piante ne fanno a meno. Le lezioni delle piante, che per inciso sono molte più di noi animali… in termini di flessibilità, leggerezza, risparmio energetico sono molte, dall’ingegneria alla politica. Perfino, vien da dire, nell’amore: più passività, buon profumo, assenza di cuore tornerebbero utili un po’ a chiunque.
Personalmente esprimo grande perplessità circa l’idea di considerare “pensiero” o “intelligenza” i tropismi e le reazioni stereotipate rispetto a minacce o a presenze estranee o ancora a fonti di acqua o altri nutrienti che i vegetali esprimono e che hanno sviluppato in un percorso evolutivo che dura da centinaia di milioni di anni. Al riguardo si veda la definizione di intelligenza data dal vocabolario Treccani .
Ciò detto potremmo utilizzare il termine “piantismo”, in analogia con il termine “animalismo”, per definire il filone di pensiero che pone l’accento sull’intelligenza vegetale. 

L’iperveganismo come prossima frontiera?
I filoni di pensiero dell’animalismo e del piantismo mi inducono a preconizzare, con un ragionamento condotto sul filo del paradosso, l’avvento di un movimento ipervegano che abbia alla propria base il principio di non cibarsi di animali e di piante, come estrema forma di rispetto per esseri viventi senzienti e intelligenti. Peraltro ad una prima analisi verrebbe da dire che un tale movimento dovrebbe portare all’estinzione per fame dei propri adepti, fatto questo spiacevole ma inevitabile per chi si avvii su percorsi che sono così agli antipodi rispetto a quelli propri della nostra specie. Ma gli ipervegani si estinguerebbero davvero? In realtà credo di no, in quanto immagino che tutto ciò potrebbe prestarsi ad almeno due soluzioni:
  • la nascita di un’industria chimica deputata alla sintesi di molecole organiche e non (carboidrati, aminoacidi, vitamine, ecc.) che eviterebbero agli ipervegani di dover dipendere da catene alimentari basate sui “cittadini animali e vegetali”
  • la soluzione basata sul “soylent verde”, preconizzata in un film statunitense di fantascienza del 1973, circa la quale non mi dilungo rimandando i lettori digiuni dell’argomento (e il digiuno, credetemi, è la cosa di gran lunga più sensata) alla lettura della trama del film disponibile qui: https://it.wikipedia.org/wiki/2022:_i_sopravvissuti.  
Quanto sopra per inciso non mancherebbe di creare un nuovo e ricchissimo segmento di mercato, un po’ come sta già oggi accadendo per i cibi vegani, che sono oggetto di sempre maggiore attenzione da parte della grande distribuzione che va a caccia di nuovi clienti senza andar troppo per il sottile circa le implicazioni sanitarie di tali stili di consumo (http://www.e-coop.it/web/guest/prodotti-per-vegetariani-e-vegani). 

La storia dell’agricoltura come strumento per contrastare queste strane derive
Lasciando il piano del paradosso e tornando ad un piano più concreto, penso che una lettura serena della storia dell’agricoltura ci inviti a riaffermare l’immenso valore storico e culturale della rivoluzione neolitica e della domesticazione, intesa come simbiosi mutualistica con piante e animali. Molto di quanto oggi ci circonda (divisione del lavoro, leggi, istituzioni, commercio, ecc.) discende da quella remota rivoluzione, che per il carattere fondante rispetto alla nostra civiltà si trova citata nella Bibbia quando si parla ad esempio di Caino agricoltore e Abele allevatore o della prima vigna piantata da Noè.
Mettere oggi in discussione la rivoluzione neolitica è più che mai insensato in quanto un’umanità di 7 miliardi di abitanti non può fare in alcun modo a meno delle risorse alimentari che derivano da animali d’allevamento e vegetali coltivati. Per questo trovo sconcertante il relativismo che emerge dallo scritto di James Mc Williams e che a mio avviso attesta il livello di disorientamento che oggi caratterizza la società statunitense e più in generale le società occidentali.
Peraltro dieci millenni di storia dell’agricoltura ci insegnano che le piante coltivate debbano essere mantenute in ottime condizioni vegetative per ottimizzare in termini quali-quantitativi il prodotto che ne ritraiamo e che gli animali domestici devono essere trattati con umanità. Insomma, uomo come custode del creato e non come succube dello stesso. 


Luigi Mariani
Docente di Storia dell' Agricoltura Università degli Studi di Milano-Disaa, condirettore del Museo Lombardo di Storia dell'Agricoltura di Sant'Angelo Lodigiano. E' stato anche Docente di Agrometeorologia e Agronomia nello stesso Ateneo e Presidente dell’Associazione Italiana di Agrometeorologia.





5 commenti:

  1. In rete si trova questo grafico, che mostra come sia variata negli ultimi 10.000 anni la "biomassa" dell'uomo e dei suoi animali di allevamento/compagnia, e quella del resto dei vertebrati terrestri. Praticamente si ha un azzeramento di quest'ultima, e una moltiplicazione per 1000 o piu' della prima.
    Questa e' una delle tante repliche del grafico (che si trova con google cercando "terrestrial vertebrate biomass"):

    67.media.tumblr.com/5ca23bb53e4dc62b34c9f35c6d53874e/tumblr_o10eofTBRe1ru8h9so1_500.jpg

    I valori mostrati sono impressionanti, tanto da essere inverosimili. Secondo voi esperti sono corretti, e se non lo sono, di quanto sbagliano?
    Se sono corretti, anche solo in parte, questo potrebbe spiegare/giustificare l'atteggiamento di alcune persone, piu' sensibili, riguardo alla problematica esposta nell'articolo.

    Potrebbe quasi sembrare che, presi nell'insieme, stiamo trasformando la terra in un immenso fomicaio umano dove non resta spazio per alcunche' d'altro.

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    1. Ciò che è inaccettabile e che persone " che si ritengono più sensibili" (su quale base poi?) mi impongano di diventare vegetariano. Detto questo, però, è vero che la dieta carnea che l'uomo occidentale abitante dei paesi ricchi ha adottato non è ambientalmente sostenibile sia per 7,5 miliardi di persone attuali e tanto meno quando saremo 10 miliardi. Pertanto il problema non sta in un volere imporre dei nuovi diritti degli animali e soprattutto il volere suddividere gli uomini in "barbari" solo perchè non si sentono in dovere di avere certe sensibilità (spesso patologiche) verso gli animali. Il fatto dirimente è che non è possibile continuare produrre 7 kg di proteine vegetali per crearne un kg di proteine animali per permettere agli uomini di ingozzarsi di carne. Il nostro pianeta non sopporterebbe ciò e quindi dobbiamo dare una regolata drastica alla nostra dieta di paesi ricchi e convincere anche altri, che purtroppo non hanno mai potuto godere della nostra dieta carnea a non fare l'errore che abbiamo fatto noi. Credo che sarà difficile convincerli perchè a loro supporto vi è una ragione incontestabile: "troppo comodo per dei sovrappeso chiedere a dei, da sempre, normo o minus peso corporeo di limitarsi"!.

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    2. Credo che pochi piu' di me ritengano privo di qualsiasi valore etico un comportamento che sia costretto.
      Pero' cio' su cui chiedevo lumi e' se siano se non esatti, almeno verosimili, i dati circa il mutamento del rapporto negli ultimi 10 millenni fra i vari vertebrati che popolano la crosta terrestre (uomini, loro allevati, selvatici).
      Il grafico sopra citato e' talmente eclatante da sembrare inverosimile.

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  2. "Il grafico sopra citato e' talmente eclatante da sembrare inverosimile"?

    Per me non lo è se si ripercorre la storia dell'agricoltura.
    Se è vero che gli allevamenti intensivi hanno cominciato a moltiplicarsi (polli, maiali e bovini) intorno al 1950 è altrettanto vero che nel 1900 eravamo in 1,6 miliardi ed oggi siamo in 7,5 miliardi. Inoltre non è detto che siano stati questi a eliminare gli animali selvatici. L'uomo ha addomesticato solo una trentina di mammiferi e una ventina di uccelli, cioè un numero nettamente inferiore rispetto alle piante. Di molti animali ormai non si conoscono più da tempo i progenitori quindi la fase di sopravvento degli animali addomesticati accompagna la storia dell'uomo. Infatti la fase agropastorale è iniziata 7000 anni a.C., i primi 4 ungulati hanno cominciato ad essere addomesticati 9000 anni a.C., il cavallo 4000 anni, l'asino un po' prima ed i polli molto dopo.

    L'addomesticamento consiste innanzitutto dall'isolare dei soggetti e farli fecondare tra loro e quindi la tipologia dei soggetti è man mano cambiata. Successivamente è intervenuta la selezione genetica che ha scelto elementi di sopravvivenza diversi da quelli del mondo selvatico, ad esempio ha reso inutile la migrazione e la selezione del più veloce. Si è inoltre preferito specie già socialmente organizzate in quant era sufficiente che l'individuo dominante riconoscesse l'uomo come individuo "alfa" che tutto il gruppo si faceva addomesticare. Ecco perchè le specie addomesticate sono cresciute molto più di numero che le specie selvatiche che invece hanno avuto una tendenza alla diminuzione perchè non si sono adattate ai cambiamenti imposti dall'uomo per sopravvivere. Non esiste nessuna società umana che abbia rinunciato alla domesticazione e favorito gli animali domesticati cacciando quelli selvatici.

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  3. Grazie delle delucidazioni e delle conferme, conosco un po' anch'io, da dilettante che vorrebbe essere amante della cultura, la storia naturale.

    Trovo interessantissimi, delle vere miniere di informazioni preziosissime, i suoi articoli e interventi circa l'attivita'di sviluppo sementiero, anche relativamente alla storia del nostro paese, di cui la maggior parte della gente, che non soffre piu' la fame senza sapere perche', e' del tutto ignara.

    Cio' che resta impressionante, da questi dati riportati nel link sopra, e' l'eclatante successo della nostra specie (successo che resta da definire quanto ben investito), negli ultimi 10.000 anni, nella colonizzazione del pianeta.

    Colonizzazione probabilmente e' il termine piu' adatto.

    Ma dobbiamo guardarci dalla ybris.

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