martedì 24 gennaio 2017

Retorica risorgimentale: fare gli Italiani

di Antonio Saltini

 

Per una storia dell’economia agraria italiana. Terza Parte 
Una repubblica fondata sulla corruzione è destinata a soccombere. Seconda Parte
L'agricoltura più arretrata, patrizi e borghesi avversi a ogni progresso. Prima Parte


Allegoria dell'Italia.
La molteplicità dei principati italiani fu convertita in unico corpo politico da un manipolo di focosi patrioti del tutto ignari delle peculiarità geografiche, economiche e civili di ducati e principati che si accingevano ad accorpare. Mentre viaggiatori inglesi, tedeschi, francesi avevano, dal Cinquecento, percorso la Penisola dilatando, al ritorno, una biblioteca di diari di viaggio che annovera migliaia di volumi, più di uno, basti ricordare quello dell’agronomo inglese Arthur Young, ricco dei più penetranti rilievi economici, in ossequio alle tradizioni umanistiche della cultura nazionale i dotti italiani avevano dedicato orgoglio e passione allo studio di monumenti e biblioteche, un interesse assai meno intenso poche autori di “corografie” avevano rivolto alle vie di comunicazione, alle produzioni regionali, agli scambi tra ducato e ducato. 
Se dobbiamo immaginare che negli uffici londinesi del Foreing Office operassero funzionari a conoscenza dei dettagli più reconditi del contesto economico siculo, alla Corte sabauda, destinata ad assumere il ruolo di perno dell’unificazione, tra generali e colonnelli che costituivano i pilastri di un solido stato-caserma nessuno avrebbe saputo elencare le produzioni agricole della Sicilia. Persino a Milano, una città di cui una tradizione antica esalta una cultura economica comparabile a quelle di Londra e Parigi, il più autorevole studioso di geografia politica, Carlo Cattaneo, autore di scritti esemplari sul prodigioso sistema irriguo della pianura insubre, non sarebbe stato in grado di avventurarsi in argomentazioni documentate sull’economia delle regioni a mezzogiorno dell’Appenino romagnolo.
Se i rilievi precedenti non mancano di fondamento non può stupire chi, leggendo memoriali e relazioni dell’epoca, reperisca le cento espressioni, magari formulate con qualche ermetismo, del senso di smarrimento della coscienza nazionale di fronte alle immense distanze civili ed economiche che l’unificazione dimostrò separare i cittadini delle nuove tessere del Paese. Sappiamo non sussistere percezione più inequivocabile dell’estraneità tra gli esseri umani dell’impossibilità di comunicare: ma il calabrese parlava un linguaggio incomprensibile all’emiliano, il romano al trentino, l’abruzzese al ligure.
Ignari di geografia economica ma in grado, per le radici umanistiche, di concepire metafore suggestive, la cultura dei “padri della Patria” si manifestò nell’eloquente aforisma: “L’Italia è fatta. Ora bisogna fare gli Italiani!” Espressione brillante ma puramente retorica, siccome, come credo di avere dimostrato nei primi fogli di queste riflessioni un vallum abissale separava gli abitanti della Penisola, la distinzione tra ceti proprietari e classi contadine, tanto miserabili da essere considerate, dai “padroni” autentica “razza inferiore”, e proprio perché inferiore passibile di qualunque angheria.
E non è inverosimile supporre che “fare gli Italiani” significasse, per i “padri della patria” finalmente raccolti in Parlamento nazionale, creare un sentimento patriottico nei ceti proprietari, siccome i contadini, analfabeti e privi del diritto di voto, erano considerati estranei alla società politica. Non a caso in quel medesimo parlamento l’essenza di ogni scelta politica si risolse, nei primi decenni dell’unità, nello scongiurare qualunque eventualità che l’invalicabilità del fossato potesse essere compromessa. Lo zelo dei sedicenti architetti dell’unità nazionale fu tale, anzi, da ampliarlo immensamente in un pugno di decenni. Ignoranti di geografia e di economia, ma imbevuti di banalità positiviste, gli artefici dell’unità rivolgevano il medesimo odio alle istituzioni medievali e all’entità che, non si comprende con quanta accortezza, ne aveva assunto, a tutela di immaginari valori morali, il patrocinio: la Chiesa cattolica.
Terre comunali regolate da primitivi statuti medievali e latifondi di ordini religiosi si dilatavano, nel Mezzogiorno, su estensioni sconfinate: la conversione del loro impiego secondo procedure agronomiche moderne avrebbe assicurato continuità di lavoro alle plebi rurali, un’immensa dilatazione delle disponibilità alimentari essenziali, e quella dei prodotti “tipici” oggetto di fruttuose esportazione. Ma non era il progresso agricolo l’aspirazione dei membri del primo parlamento italiano, che non pretendevano che la soppressione delle forme medievali di proprietà della terra propugnata dagli scintillanti philosophes francesi e l’appagamento dell’odio giacobino per quanto fosse definibile istituzione della Chiesa.
Qualunque scelta politica assunta con il solo movente di elucubrazioni filosofiche e per odio di un’istituzione vetusta non può che portare a esiti privi di qualsiasi pubblica utilità. Così fu delle vendite delle immense proprietà comunali ed ecclesiastiche: organizzate le aste senza prevedere alcuno strumento di controllo della legalità, i risultati furono decisi, dovunque si liquidasse un latifondo, da quelle che il lessico popolare definì “camorre”, costituite da patrizi che ovviavano alle scomuniche ecclesiastiche ricorrendo a banchieri israeliti e dalla borghesia che delle grandi proprietà nobiliari sfruttava le potenzialità economiche, una borghesia che i primi esploratori della realtà agraria meridionale non ebbero alcun dubbio a definire una cosca di usurai.
Siccome l’appropriazione dei beni comunali e dei latifondi ecclesiastici, sui quali gli statuti medievali consentivano ai contadini il soddisfacimento di esigenze vitali (la raccolta di legna e frutti selvatici, il pascolo per una vacca, il diritto a coltivare piccole superfici), il risultato delle lungimiranti espropriazioni degli “eroi” risorgimentali fu l’accentuazione dell’odio contadino verso qualunque istituzione pubblica, dopo cento dominazioni francesi e spagnole un sentimento già profondamente radicato, e l’attribuzione di nuovi poteri e opportunità di angariare le classi subalterne all’odiato ceto degli usurai, che i parlamentari della “nuova Italia” dimostravano di scegliere come i partner delle nuove istituzioni pubbliche. Non solo le istituzioni pubbliche del nuovo regno si confermavano avverse alla miserabile plebe contadina, per scelta dei rappresentanti della nazione sancivano l’alleanza con i nemici secolari di ogni lavoratore della terra.
L’esito dell’azione legislativa e amministrativa di chi aveva retoricamente proclamato la necessità di “fare gli italiani” può essere identificato, dopo cinquant’anni di Italia unita, nell’esatto opposto del nobile assunto, l’accentuazione del fossato tra “signori” e contadini, la più grave delle divisioni tra gli abitanti della Penisola. Nelle prime pagine di queste riflessioni ho sottolineato che lo iato tra le due classi costituiva elemento comune del quadro sociale europeo, ma nel numero preminente dei paesi dell’Europa centrale, gli stati tedeschi meridionali, la Danimarca, l’Olanda, la Francia, un’aristocrazia e una borghesia dalla cultura radicalmente diversa da quella di nobili e borghesi italiani, preoccupate del futuro economico e civile del proprio paese, manifestavano, nei medesimi decenni, la determinazione perché, istruiti, e in grado di ricavare, dal proprio sudore, i mezzi per un’esistenza decorosa, i ceti rurali divenissero parte attiva del progresso civile ed economico.
Nel panorama politico nazionale costituì novità di straordinaria valenza, nell’ultimo decennio del secolo, l’affacciarsi, sulla scena nazionale, di un manipolo di uomini politici dalla cultura nuova, dotati, soprattutto, di una conoscenza penetrante dei progressi scientifici, industriali e civili che si registravano nelle nazioni all’avanguardia del Continente. La piccola compagine professava, si deve sottolineare, ideali liberali, più di un membro il credo israelita, con eguale frequenza l’affiliazione massonica. L’abisso che ne separava i convincimenti da quelli di signori aristocratici e affaristi borghesi si imperniava sulla consapevolezza che l’Italia, allora nazione agricola, rivelasse l’agricoltura più arretrata d’Europa, un’asserzione che indignava i proprietari, da Vercelli ad Agrigento atterriti dalla consapevolezza che il progresso avrebbe imposto investimenti che rifiutavano categoricamente di affrontare. Se della compagine Luigi Luzzatti, israelita, economista, certamente affiliato massone, ripetutamente ministro, rappresentava l’ispiratore, si unirono a lui uomini dal nome di Enea Cavalieri, Giovanni Raineri, Antonio Bizzozero, Vittorio Peglion.
Idea chiave della compagine: il progresso dell’agricoltura italiana imponeva la creazione di un’organizzazione che realizzasse l’acquisto collettivo di fertilizzanti, antiparassitari e macchine moderne, e con i nuovi strumenti diffondesse le cognizioni necessarie al loro impiego più proficuo. Il progetto prese corpo, il 10 aprile 1892, a Piacenza, dove, nella sede della Banca popolare (un’istituzione ideata e diffusa sul territorio nazionale da Luzzatti), fu costituita la Federazione Italiana dei Consorzi Agrari. Chi consideri l’esiguità dei partecipanti alla seduta piacentina non può che restare stupito dalla rapidità con cui una Federazione che associava meno di dieci organismi avrebbe saputo promuovere, in un pugno di anni, un’autentica schiera di consorzi agrari, che nel primo decennio del Novecento si sarebbe imposta come l’autentica forza propulsiva del rinnovamento dell’agricoltura nazionale. La genialità dei fondatori appare inequivocabile nella capacità di convincere grandi possidenti e piccoli affittuari, egualmente proni, tradizionalmente, agli imperativi del più pavido individualismo, a sperimentare l’acquisto di un carico di perfosfato, a verificarne i vantaggi, a farsi socio e utente abituale del nuovo Consorzio provinciale.
Alla nuova organizzazione spetta un posto di diritto tra le espressioni della straordinaria vitalità del primo decennio del secolo, quando la Nazione parve intraprendere la strada del progresso economico e civile, suscitando le attese, e animando le rivendicazioni, dei ceti popolari, tanto da allarmare i tutori della ferrea divisione di caste, che decisero che non era con gli scioperi delle leghe contadine che doveva realizzarsi l’obliato imperativo di “fare gli italiani”: se gli abitanti della Penisola dovevano saldarsi in entità omogenea ad affratellarli avrebbe dovuto essere la trincea. Siccome gli eredi dell’eroica falange garibaldina non si rivelarono, peraltro, neppure in grado di vincere la scommessa bellica, per rafforzare lo spirito dei combattenti furono proclamate solenni promesse che ai reduci sarebbe stato concesso di realizzare il sogno antico di possedere la terra irrorata dal sudore degli avi, una promessa che toccò i precordi di migliaia di combattenti contadini.
Conquistata la vittoria, la promessa si rivelò, quale era, infame menzogna, la cui evidenza non mancò di contribuire alla rapida diffusione, tra chi tornava dalla trincea, del verbo socialista, la cui diffusione fu tanto rapida da creare, rapidamente, una situazione prerivoluzionaria, alla quale la classe politica postunitaria reagì sottomettendosi ad un dittatore pseudomilitare, dimostrando che il bene supremo cui tutto era disposta a sacrificare non erano le declamate libertà di un ordinamento democratico, mera bandiera per compiacersi dei titoli di cittadini di una nazione avanzata, era la proprietà della terra e l’insieme dei privilegi che consentivano di imporre a chi la lavorava condizioni di schiavitù, l’unica condizione, abbiamo rilevato, per spremere ricchezza da un’agricoltura arretrata.
A palesare che la scelta della dittatura era la scelta unanime della proprietà agraria in più di una provincia del titolo di “federale” sarebbe stato insignito un possidente di indiscussi prestigio e ricchezza. Valga l’esempio di Firenze, dove l’onore fu attribuito al primo patrizio, e primo proprietario, in un mondo di signori di castelli e aziende sconfinate, l’erede di quel Barone di ferro che aveva ricoperto il ruolo di presidente del Consiglio ricevendo persino la visita, nel più sontuoso dei propri castelli, di Sua Maestà, una circostanza che aveva imposto di inghiaiare le straducole tra fattoria e fattoria, onere immenso, dato il numero delle proprietà e le relative distanze (felicemente assolto, narra un’inestinguibile leggenda fiorentina, dai fondi speciali della presidenza del Consiglio, esempio imperituro per tutti i Bettini che si sarebbero succeduti sul proscenio nazionale).
Se “fare gli italiani” era stato l’intento fallito, siccome mendace, di un ceto politico che si era rinnovato nelle persone conservando, con ferrea determinazione, la propria etica di ottuso classismo, la scelta di sottomettersi ad un tiranno pur di conservare proprietà e privilegi offrì la prova più eloquente di chi fossero, realmente, i “signori” italiani, pronti a farsi servi pur di conservare il dominio incondizionato su chi fosse loro soggetto. Il Fascismo fu la carta giocata da proprietari patrizi e borghesi a tutela della solidità del vallum che assicurava l’appropriazione esclusiva della ricchezza retraibile dall’unica attività economica del Paese, l’agricoltura più arretrata d’Europa. Soffocato ogni impulso al progresso civile per un ulteriore ventennio, il Fascismo avrebbe lasciato in eredità alla Nazione divisioni ulteriori, che si sarebbero sommate a quelle antiche e aggravato quelle recenti. “Fare gli italiani” sarebbe assurto, in età repubblicana, a compito ancora più gravoso di quanto fosse stato al tempo del conte di Cavour. Un impegno che i tempi impietosi della storia avrebbero reso ancora più arduo realizzare nelle condizioni apparentemente favorevoli dei primi decenni successivi al conflitto.




Antonio Saltini
Docente di Storia dell'agricoltura all'Università di Milano, giornalista, storico delle scienze agrarie. Ha diretto la rivista mensile di agricoltura Genio Rurale ed è stato vicedirettore del settimanale, sempre di argomento agricolo, Terra e Vita. E' autore della Storia delle Scienze Agrarie opera in 7 volumi. www.itempidellaterra.com (qui).

 

 

 

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