sabato 2 giugno 2018

FESTA DELLA REPUBBLICA

di ANTONIO SALTINI


La democrazia non è una chimera votata da un'assemblea romana il 2 giugno 1946, è la conquista di una lotta quotidiana per il diritto, il progresso economico, la cultura, tre impegni che gli italiani giudicano defatiganti, ma che non possono, tragicamente, delegare al "telefonino"





2 giugno 2018: 72 anni dalla promulgazione della Costituzione della Repubblica italiana. Anziché giornata di gioioso tripudio per i traguardi civili, sociali, economici conseguiti, i risultati delle elezioni recenti imporrebbero una severa giornata di lutto.

Quei risultati sono stati inequivocabili: un paese privo, ormai, di mete diverse dalla mera sopravvivenza si è scontrato con se medesimo in una lizza carnevalesca derisa dall'intera stampa mondiale, per votare partiti condotti da uomini che tutti sanno perfettamente equivalenti tanto sul terreno della moralità pubblica quanto su quello della levatura intellettuale.
Il sarcastico aforisma che vanta l'Italia come il paese che non deve chiedersi, angosciosamente, se costituisca sorte peggior una classe politica ignorante o una classe politica disonesta, siccome governato da uno dei ceti politici più ignoranti e, insieme, più disonesti del Pianeta, è tragicamente cogente. Per chi nutrisse dubbi i risultati elettorali, e, ancora più brutalmente, i negoziati che ne sono seguiti, hanno dissolto ogni possibile illusione.
Qualche nostalgico privo di acume storico cita ancora, enfaticamente, la rinascita nazionale seguita alla cosidetta "Liberazione", anch'essa evento di cui il pudore imporrebbe di depennare la celebrazione: gli italiani si battono valorosamente, in tutti i bar della nazione, per i risultati di ogni partita di calcio, nessuno rischierebbe di uscire dall'anonimato per denunciare, personalmente, una malversazione politica di cui fosse, per qualunque ragione, perfettamente a conoscenza. Siamo il paese dell'omertà: la prima legge della mafia, il vero modello della moralità collettiva.
Due giugno 1946: nell'emiciclo della Costituente sedevano autentici "partigiani" di una società democratica fondata sui principi dello "stato di diritto": possiamo menzionare Alcide De Gasperi e Ezio Vanoni, Ugo La Malfa e Pietro Nenni. Chi scrive ha assistito, nel corso di un'assemblea palermitana, alla pronuncia della propria condanna a morte (denunciando l'arbitro della corruzione regionale nell'assessore andreottiano Aleppo) di Pio La Torre: seppure, per l'intrinseca incompatibilità del mito della "dittatura del proletariato", un'utopia essenzialmente incompatibile con i principi dello "stato di diritto", il contributo del PCI al radicamento di un costume democratico sia stato oltremodo modesto, anche il PCI poté vantare autentici eroi della democrazia (quella autentica, cioè parlamentare).
Ma nella medesima assemblea costituente v'era chi declamava ideali democratici operando perché non potessero mai realizzarsi. Primo tra tutti, Giulio Andreotti, mediatore tra tutte le mafie, alchimista di combinazioni sataniche tra Massoneria, camorre ed i poteri oscuri che nella storia d'Italia hanno sempre allignato tra le porpore cardinalizie, dove i servitori di Cristo non sono mai mancati, pure costituendo sparuta minoranza.
Mentre il sodale dei porporati neri era venerato dagli italiani per le battute argute, che in un paese di lacché godono di un credito maggiore di mille denunce delle collusioni con i vertici della delinquenza palermitana. Ex aequo con Palmiro Togliatti, fino alla morte verosimilmente pronto, fosse mutato lo scenario internazionale, a fare occupare Montecitorio dai miliziani rossi convertendosi nel capo di un governo - fantoccio manovrato, come quelli di Praga, Budapest e Varsavia, dal grande burattinaio di Mosca.
Ma se è patetico (si potrebbe sostituire l'aggettivo con il più realistico "grottesco") celebrare, il 2 giugno, la "festa" della repubblica, un rilievo finale si può aggiungere alle riflessioni imposte dalla recente bagarre elettorale. Il rilievo che l'autentico trionfatore deve essere riconosciuto nel Grande Fratello, nella persona dell'affarista televisivo che, usandone la chiave per una trasmissione di ineguagliato successo, la lezione di Orwell ha praticato, con cinismo esemplare, a proprio vantaggio.
Sono, ormai, quattro decenni che, prima quale manutengolo di Craxi, quindi come dominatore incontrastato del paese, il cavalier Berlusconi, inculca, secondo un progetto di indiscutibile lungimiranza, attraverso le proprie reti televisive, nel popolo italiano una cultura radicalmente diversa da tutte quelle che che l'hanno preceduta, la cultura che ha trasformato i cittadini in consumatori, consumatori alla forsennata ricerca dell'ultima banalità di moda.
Ricordo, poco oltre la metà degli anni Ottanta, l'edizione della Fiera del libro di Francoforte dedicata al libro e alla cultura italiana. Decine di editori italici presentavano novità che centinaia di colleghi stranieri studiavano valutando la convenienza ad acquistarne i diritti. Eravamo tra i paesi che contribuivano alla vitalità della cultura dell'Occidente. Non sono trascorsi quattro decenni, un tempo storico insignificante: l'italica gente ha gettato i libri nel cassonetto siccome il Verbo era, ora, la televisione, cui ha sostituito, successivamente, il cellulare, che milioni di italiani manovrano, durante l'intera giornata, appassionatamente, siccome evita la fatica di qualunque impegno cerebrale più funzionalmente della medesima televisione.
Non ho mai chiesto a uno psichiatra di autentica autorevolezza se la delega di tutte le funzioni cerebrali al fatale gadget atrofizzi, progressivamente, il cervello. L'universalità del fenomeno suggerisce che l'atrofia sia ereditabile: sul terreno della genetica individuale è certo che non lo sia, mentre su quello collettivo l'ipotesi è inequivocabilmente provata dalla Babele in cui si è convertita la negoziazione tra due partiti egualmente pervasi dalla cultura dell'avversario che hanno sconfitto nelle urne, che trionfa dimostrando che chi lo ha elettoralmente triturato lo ha fatto manifestando l'assoluta soggezione che, Grande Fratello di ogni italiano, ha diabolicamente inculcato, per quarant'anni, nell' (in)coscienza collettiva.


2 giugno 2018

 


Antonio Saltini 

Docente di Storia dell'agricoltura all'Università di Milano, giornalista, storico delle scienze agrarie. Ha diretto la rivista mensile di agricoltura Genio Rurale ed è stato vicedirettore del settimanale, sempre di argomento agricolo, Terra e Vita. E' autore della Storia delle Scienze Agrarie opera in 7 volumi.

1 commento:

  1. La rete ha prodotto i cyber-ignoranti: presuntuosi, maleducati, complottari, anti-scienza, seminatori di odio e POLITICI.

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