martedì 31 ottobre 2017

La scienza e le biotecnologie vegetali saranno pronte per assicurare alimenti alla popolazione mondiale del 2050? Prima parte

di A. Michele Stanca

 

L'intervento del convegno: “La Terra. Lascito dei genitori o prestito dei figli? Le contraddizioni del processo di evoluzione e trasformazione dell’agricoltura italiana.”






a cura di Alessandro Cantarelli   


Giunti a questo punto di quello straordinario appuntamento, che è stata la giornata di studi promossa presso la Biblioteca-Archivio “Emilio Sereni”-Istituto “Alcide Cervi”, dopo che si erano conclusi secondo il programma la prima parte degli interventi, la platea in sala aveva così potuto apprezzare delle consistenti ed approfondite trattazioni, tutte pertinenti con il tema dell’iniziativa ed approfondite egregiamente dai Relatori (come anche i non presenti avranno potuto constatare, dalle precedenti pubblicazioni su Agrarian Sciences). Prima di iniziare la seconda parte, secondo la sequenza in programma, essendo stato il pubblico partecipe ma anche appassionato per i diversi argomenti presentati, l’occasione fu quindi propizia per portare all’attenzione tematiche di forte impatto mediatico, quali la bufala della “fragola-pesce” (fish berry), oppure le presunte superiorità agronomiche e nutrizionali dei “grani antichi”. Per poi passare a come non arrivare impreparati fra non molti anni, al fornire agli agricoltori quelle piante adeguate al cambiamento climatico in corso, ed alle maggiori concentrazioni di CO₂, che con gli strumenti dell’agronomia possano continuare a fornire produzioni soddisfacenti.
Ai lettori che volessero approfondire le suddette tematiche, in calce a questa pagina si ritiene opportuno fornire alcune citazioni bibliografiche.
Prese quindi la parola il Prof. Antonio Michele Stanca Presidente U.N.A.S.A e VicePresidente dell’Accademia dei Georgofili di Firenze, per formulare quelle importanti considerazioni riportate dettagliatamente nella relazione sottostante.
Per l’autorevolezza della fonte, tale contributo costituisce un documento di assoluto rilievo nel panorama scientifico agrario.

A partire dagli anni 60, la rivoluzione verde ha aumentato le rese agricole in Asia e in America latina con nuove varietà migliorate di colture, più fertilizzanti irrigazione e macchine agricole. Bisogna ora intervenire nelle aree meno produttive in Africa, America latina ed Europa orientale, dove ci sono“buchi”tra i livelli di produzione attuali e quelli possibili. L’utilizzo delle biotecnologie per ottenere piante più efficienti e produttive e approcci mutuati dall’agricoltura biologica e conservativa potrebbero aumentare in maniera considerevole le rese in questi luoghi.
Introduzione¹
In cinque grandi centri di origine, 12.000 anni or sono, intorno a orzo, frumento, mais, riso, la specie umana inventa la più importante attività che ci ha accompagnato nella nostra storia evolutiva e ci accompagnerà all’infinito: l’agricoltura. Cosa era successo in quel preciso momento? C’è stato un passaggio di era, dal tardo paleolitico (uomo cacciatore-raccoglitore) al neolitico, durante il quale l’uomo/donna mette a punto la tecnologia per coltivare piante che già usava nella sua dieta, perché presenti nell’ambiente circostante, si nutre dei loro prodotti ed evita così di esercitare esclusivamente
l’attività pericolosa della caccia. È interessante che questa innovazione si sia sviluppata indipendentemente nei diversi centri di origine e probabilmente determinata da un unico evento: si stava concludendo l’ultima glaciazione. Mano a mano che i ghiacciai si ritiravano, nuove specie erbacee e arboree si svilupparono e le abitudini alimentari cambiarono radicalmente. Le graminacee progenitori di orzo, frumento, mais e riso diventarono le più frequenti nella flora spontanea e vennero usate dal cacciatore-raccoglitore tal quali prima e coltivate poi. La disponibilità di cibo e di nuove terre a seguito del ritiro di ghiacciai favorirono l’espansione della popolazione umana, che raggiunse circa 5.000.000 di persone su tutto il pianeta (Cavalli Sforza 2005). Per praticare l’agricoltura l’uomo addomestica la specie che più gli assicura il maggior rendimento, e da quel momento la protegge dalla competizione con le altre specie: la sottrae quindi alla selezione naturale e dà avvio alla Rivoluzione Neolitica. Tutto ciò si realizza nella Mezzaluna Fertile, regione nella quale la civiltà compie i primi passi intorno a frumento e orzo e in cui nello stesso tempo vengono applicate tutte le tecnologie innovative via via sviluppate. Nella aree circostanti la Rivoluzione Neolitica non si è ancora diffusa. È stato messo in evidenza che l’assenza di progenitori selvatici di orzo e frumento in Europa ha fatto sì che l’agricoltura raggiungesse i Paesi scandinavi con un ritardo di 4000 anni. La diffusione di questa tecnologia, partendo dalla Mezzaluna, è stata calcolata pari a 1,1 km/anno (Cavalli-Sforza 2005). Anche l’Italia non ha conosciuto un neolitico indigeno, ed è stata colonizzata seguendo due principali vie: il Mediterraneo e il Danubio, attraverso la Svizzera. 
L’abbondanza di alimenti stimolò nell’uomo del neolitico la ricerca di un sistema di conservazione dei prodotti agricoli: l’uomo impara a cuocere l’argilla e a costruire i primi grandi vasi di terracotta proprio per la conservazione delle granaglie e dei liquidi. Questa tecnologia, benché nata in ritardo di qualche millennio rispetto all’agricoltura, si sviluppò molto più velocemente tra le diverse popolazioni. Proprio in questa seconda fase si scoprono, casualmente, anche i primi prodotti trasformati: birra e pane. Questa “tranquillità” alimentare favorì ulteriormente l’incremento demografico, che a sua volta ha favorito le migrazioni verso nuove terre sino alla formazione delle prime città. L’orzo e il frumento selvatici a quel tempo coltivati avevano la caratteristica di disperdere i semi: la spiga a maturazione si disarticolava ad ogni nodo del rachide, lasciando cadere i singoli chicchi in posizioni diverse sul terreno, così favorendo la crescita e maturazione delle nuove piante, avvantaggiate in ecosistemi naturali nella competizione con altre specie ( Figura 1). 

Figura 1- Spiga di orzo (Hordeum spontaneum), caratterizzato da rachide fragile che, disarticolandosi
alla maturazione, consente la dispersione dei semi. Foto: R. Alberici.
Se dal punto di vista evolutivo questa strategia sviluppata dalla pianta rappresentava una valvola di sicurezza per la sopravvivenza della specie, dal punto di vista della produzione di cibo costituiva un punto debole, portando alla perdita totale del raccolto per effetto di improvvise calamità naturali (vento, pioggia). Il più grande salto scientifico-tecnologico si ebbe quando tra le piante di orzo selvatico si scoprì una spiga non fragile. Fu la prima trasformazione genetica utile registrata nella storia, che certo avrà provocato scontri tra le diverse posizioni: progressisti per la “spiga non fragile”, conservatori a favore della “spiga fragile”.
Vinsero i progressisti, e da quel momento cominciò ad evolversi tutta una nuova tecnologia per la raccolta, la trebbiatura e la conservazione del prodotto. La genetica che sottende questo carattere fondamentale della domesticazione è stata recentemente chiarita. In orzo, i due geni responsabili del carattere “spiga non fragile” sono Btr1 e Btr2, strettamente associati sul cromosoma 3H, mentre in frumento svolgono un ruolo maggiore brittle rachis 2 (Br-A1) e brittle rachis 3 (Br-B1), rispettivamente posizionati sul braccio corto dei cromosomi 3A e 3B. Nell’insieme, sembra che in tutte le Triticeae siano presenti questi geni come gruppo di ortologhi che controllano la disarticolazione in diversi punti della spiga. Un altro esempio è il gene sh4 di riso, che codifica per un fattore trascrizionale responsabile della formazione del tessuto di abscissione alla base del peduncolo che regge il granello sulla pannocchia di riso. Nel riso coltivato la mutazione di un singolo nucleotide, che determina la sostituzione di una Lisina con una Asparagina, è sufficiente per ridurre lo sviluppo del tessuto di abscissione in modo tale da impedire la caduta spontanea dei semi, consentendo tuttavia il distacco dei semi a seguito di sollecitazione meccanica (trebbiatura). Nel processo di addomesticamento una caratteristica tenuta in gran conto è stata la dimensione dei frutti. Uno degli esempi più significativi è la transizione dalla forma selvatica -oleastro- ad olivo coltivato da olio, che si caratterizza per l’incremento notevole delle dimensioni della drupa, processo verosimilmente controllato da poche mutazioni semplici (Figura 2 ).
 
Figura 2- Frutti e foglie di oleastro (Olea europaea sbsp. sylvestris) e di varietà
coltivate da olio (Olea europaea sbsp.sativa - varietà Cellina di Nardò).
Cortesia di A.M. Stanca et al.
Una profonda modifica dell’architettura della pianta e della morfologia della spiga del mais è stata causata dal gene Teosinte branch1 (Tb1) che controlla lo sviluppo delle gemme laterali, determinando nel progenitore selvatico del mais (il teosinte) lunghe ramificazioni laterali terminanti con una infiorescenza maschile e numerosi germogli basali, caratteristiche assenti nel mais coltivato. Tb1 codifica per un fattore trascrizionale che  agisce da repressore dello sviluppo dei germogli laterali, imponendo una dominanza apicale. Anche in specie orticole è stato molto evidente l’effetto delle mutazioni su caratteristiche fondamentali dell’architettura della pianta e qualità dei frutti. In pomodoro, significativi sono stati gli effetti di alcuni geni, tra cui self proning, che trasforma lo sviluppo della pianta da indeterminato (ininterrotta crescita dell’apice vegetativo) a determinato (la crescita dell’apice vegetativo viene bloccata, ottenendo piante a sviluppo contenuto) e jointless, che controlla il sistema di disarticolazione della bacca dal peduncolo. La bacca di pomodoro può assumere una varietà di colorazioni, che vanno dal giallo pallido al viola intenso, sino alla più recente scoperta dei mutanti a bacca nera: responsabili di questo fenomeno sono mutazioni in geni singoli, quali yellow flesh (giallo), dark green (rosso intenso), green flesh (viola), u (uniformemente verde). In pisello una mutazione puntiforme al gene af determina la trasformazione delle foglie in cirri. La fase di addomesticamento continuò portando in coltura altre specie come pisello, lenticchia, fico, e parallelamente si cominciarono ad addomesticare gli animali come pecore, capre, bovini, suini e successivamente cavalli. Con l’addomesticamento degli animali, la dieta si diversifica completamente e si completa. I binomi cereali-leguminose, cereali-latte e cereali–carne rappresentano la migliore combinazione nutritiva. Oggi sappiamo perché: la cariosside di un cereale mediamente è composta dal 65-75% di amido, 8-20% di proteine, 3,8% di grassi. La proteina però ha un valore biologico scarso perché carente di due aminoacidi, lisina e triptofano, motivo per cui anche nella dieta moderna i cereali si complementano con altri alimenti ricchi di proteine nobili. Queste innovazioni tecnologiche provocarono un aumento della quantità di cibo e conseguentemente la crescita della popolazione sulla Terra.

La formazione di Landraces
Dopo la fase iniziale di addomesticamento, l’interazione tra la selezione naturale e una selezione antropica empirica ha portato allo sviluppo di popolazioni adattate ai diversi ambienti di coltivazione, note come landraces. Si sono selezionate popolazioni con frutti e semi di dimensioni maggiori, vigore dei culmi, sincronizzazione dei tempi di germinazione e maturazione. Si è stabilito quindi un continuum tra le nuove landraces e i loro progenitori selvatici, che ha favorito eventi di introgressione, derivati da incrocio casuale e conservazione di caratteri favorevoli, con specie selvatiche imparentate, ma anche eventi di ricombinazione frequenti o sporadici. Tutte le mutazioni accumulate durante la storia evolutiva delle specie selvatiche e addomesticate rappresentano la biodiversità disponibile sul pianeta e quindi un salvadanaio di geni utili. L’importanza della conservazione e valorizzazione del germoplasma vegetale, quale fonte naturale per il mantenimento della biodiversità, è stata definita strategica per il futuro dell’umanità a partire dalla Conferenza Internazionale sulla Biodiversità tenutasi a Rio de Janeiro nel 1992. Grandiosa è stata l’opera di Teofrasto, che ha descritto il mondo vegetale in nove volumi. L’Impero Romano ha contribuito in modo determinante alla diffusione di un imponente patrimonio biologico nei territori controllati ed ha affinato una moderna tecnologia agronomica di base ed applicata, i cui effetti sono ancor oggi di riferimento; ma è stata la scoperta dell’America a determinare il più importante flusso di specie vegetali a livello planetario che, gradualmente, hanno provocato un radicale cambiamento nella dieta degli europei (mais, patata, pomodoro, fagiolo ecc.) Il tema della biodiversità è perciò da sempre al centro delle attenzioni del mondo scientifico. Il bilancio attuale stima che circa 220.000 siano le specie vegetali rilevanti presenti sul pianeta (mono e dicotiledoni), di cui 5000 usate dall’uomo per i propri fabbisogni e 1500 addomesticate. Solo 150 vengono oggi impiegate in modo significativo, ma ciò che colpisce è che 4 sole specie forniscono il 60% delle calorie alimentari. Di queste quattro specie si dispone presso diversi laboratori di centinaia di migliaia di ecotipi, landraces, varietà.
L’Italia contribuisce a questo patrimonio naturale con 6700 specie vegetali. La variabilità naturale e le risorse genetiche rappresentano il deposito di geni da cui attingere per raggiungere ulteriori progressi attraverso l’accumulo di alleli utili e l’eliminazione di blocchi di linkage in genotipi superiori. Attraverso la conservazione in situ (cioè negli ambienti naturali dove può essere possibile l’alloincrocio tra la specie addomesticata con le specie selvatiche), on farm (cioè mantenendo in coltivazione le varietà locali) e/o ex situ (cioè in ambienti controllati, in cui non esistono gli ancestrali) e valorizzato, in quanto fonte di caratteri utili per il miglioramento varietale (qui). È chiaro come la conservazione ex situ sia un processo statico, in cui non c’è ricombinazione genica, mentre nella conservazione in situ è assicurato un processo dinamico di flusso genico.
La conservazione ex situ (soprattutto di semi, ma anche di tuberi, polline, parti di pianta, spore ecc.) deriva dalla constatazione che la sola conservazione in situ non riesce ad evitare la perdita di biodiversità, a causa delle pressioni antropiche, del degrado ambientale, dei cambiamenti climatici, della competizione con specie più invasive. È questa la forma di conservazione più diffusa: si stima infatti che, a livello mondiale, poco meno del 90% del germoplasma di specie agrarie sia conservato ex situ. Recentemente si sono avviate anche attività di conservazione della flora rara, minacciata, endemica e protetta. A questo proposito sono nate e cresciute banche e associazioni per la conservazione del germoplasma, insieme a collezioni particolari disponibili presso vari enti. Veramente rilevante è il numero di genotipi presenti nelle diverse collezioni a livello mondiale: si stima infatti che la cifra globale sia di circa 7,4 milioni di accessioni, comprendendo specie coltivate e specie selvatiche, affini o non affini alle coltivate. I punti critici della conservazione di semi sono la temperatura e l’umidità. Molte specie presentano infatti semi “ortodossi”, che tollerano la deumidificazione fino a livelli del 3-7% e possono essere conservati a temperature basse (tra 0 e -20 °C). Recentemente è stata attivata una nuova struttura per la conservazione “long term” a bassa temperatura nelle isole Svalbard (Norvegia) (Westengen et al. 2013). Circa l’1% delle risorse genetiche è invece conservato in vitro, tecnica utilizzata per specie a propagazione vegetativa o caratterizzate da semi “non ortodossi”, impossibili da essiccare e conservare efficacemente a basse temperature. Ancora più rare sono le collezioni conservate a bassissime temperature (-196 °C), incluse le banche di DNA. Per le diverse specie agrarie sono conservate quindi sia “collezioni di base”, che comprendono la maggior parte della variabilità genetica esistente a livello mondiale, che Core Collections, “collezioni di lavoro” immediatamente fruibili. Tra le diverse collezioni di germoplasma presenti sul territorio italiano, spicca senz’altro l’olivo, specie allogama di grande interesse per gli ambienti mediterranei, caratterizzata da una variabilità genetica molto elevata legata al fatto che la specie non ha subìto erosione genetica specifica, e che si tratta di una pianta longeva e resistente. Si stima che il numero totale delle varietà di olivo coltivate nel mondo sia di circa 1300, a cui si aggiungono oltre 3000 ecotipi locali e le popolazioni di olivo selvatico presenti lungo tutta l’area subcostiera mediterranea. L’Italia ha uno straordinario patrimonio genetico di questa specie e raccoglie più del 40% dell’intero germoplasma coltivato, oltre a centinaia di varietà minori, ecotipi locali ed esemplari millenari.
Altre importanti collezioni di germoplasma sono relative alla vite, con più di 1500 vitigni, e i cereali e le leguminose da granella. Attualmente la genomica utilizza in modo nuovo le risorse genetiche, tant’è vero che le banche del germoplasma spesso affiancano alle loro collezioni banche del DNA. Gli avanzamenti della genomica hanno aperto infatti nuove prospettive alla genotipizzazione delle diverse popolazioni, per l’identificazione di geni che controllano caratteristiche fenotipiche semplici o complesse. La fenotipizzazione del germoplasma e di materiali genetici particolari rappresenta probabilmente una fase critica nel processo di valorizzazione e utilizzo di risorse genetiche. Grande e rinnovata attenzione viene riservata a questa attività, anche attraverso lo sviluppo di sistemi automatizzati -piattaforme- per la valutazione di diversi parametri fisiologici e morfologici in condizioni di alta standardizzazione. 


Dalle Landraces a Mendel, Strampelli, Borlaug e oltre
Nella fase premendeliana l’interazione tra la selezione naturale e una selezione antropica empirica ha portato, come già detto, allo sviluppo di popolazioni adattate ai diversi ambienti di coltivazione note come landraces. Tuttavia queste landraces, dal periodo romano agli inizi del 1900, non hanno provocato significativi incrementi produttivi per unità di superficie.
Con la riscoperta delle leggi di Mendel, le prime conoscenze sulla genetica dei caratteri quantitativi e la scoperta dell’eterosi, si è affermata una vera attività di miglioramento genetico, che nel giro di pochi decenni ha radicalmente modificato la capacità produttiva e le caratteristiche qualitative delle piante coltivate. La genetica vegetale, con la riscoperta delle leggi di Mendel, ha consentito di approfondire le conoscenze sulla definizione dell’ereditarietà dei caratteri e nello stesso tempo ha permesso di sviluppare tecnologie nelle piante coltivate capaci di accumulare geni utili, originariamente dispersi nelle popolazioni, in genotipi superiori.
Si avvia così un’intensa attività di miglioramento genetico che ha portato in tutte le specie coltivate allo sviluppo di nuove varietà sempre più produttive e sempre più rispondenti alle esigenze della moderna società. In generale, nell’ultimo secolo nella maggior parte dei Paesi si sono registrati per tutte le specie coltivate incrementi produttivi sorprendenti, ed in particolare per i cereali, grazie a Strampelli prima e a Borlaug dopo, i guadagni produttivi attribuibili al progresso genetico sono compresi tra 20 e 50 kg ha⁻¹ per anno (Garcia Olmedo 2000). Questi cambiamenti sono associati ad importanti modificazioni dell’architettura e della fisiologia della pianta, come evidente in orzo e frumento, in cui la riduzione dell’altezza della pianta, accompagnata da una maggior efficienza nell’assorbimento e nel trasporto, si è rivelata indissolubilmente collegata all’aumento dell’Harvest Index. 
Nel 1911 Nazareno Strampelli per primo introdusse il carattere bassa taglia nei frumenti usando nei suoi incroci il genotipo giapponese AKAGOMUKI, portatore del gene Rht8 sensibile alle gibberelline. Lo sviluppo di nuovi genotipi a bassa taglia rappresenta il grande successo italiano nel mondo. Le varietà di Strampelli sono state impiegate in quasi tutti i programmi di breeding in tutto il mondo sino a pochi anni or sono. Anche Cesare Orlandi utilizzò un’altra varietà a taglia bassa – SAITAMA 27 – portatrice del gene Rht-B1d insensibile alle gibberelline. Successivamente un’altra varietà giapponese, Norin10(6x), portatrice di un altro gene di bassa taglia Rht-B1b insensibile alle gibberelline, isolata per la prima volta nel 1932, fu introdotta nel 1946 da Orville Vogel nella Washington State University, e nel 1948 fu eseguito il primo incrocio. Norman Borlaug utilizza Norin 10 nel 1955 per gli incroci, e nel 1964 avvia il nuovo programma di miglioramento genetico presso il CIMMYT (Messico), dal quale origina e si realizza la “Rivoluzione Verde”, che gli porterà nel 1970 il premio Nobel per la Pace. Va chiarito che il successo di questi nuovi genotipi a bassa taglia non derivò soltanto dall’eliminazione dei danni da allettamento, ma anche dagli effetti pleiotropici di questo gene. Il guadagno nelle rese, anche con l’uso di dosi massicce di azoto, sarebbe stato pari al 50% del potenziale produttivo, cioè si sarebbero raggiunte rese pari a 3-3,5 t/ha. In pratica la presenza di Rht-B1b permette alla pianta di aumentare l’apparato fotosintetico, migliorare la fertilità della spighetta, il numero di spighette per spiga, il numero di spighe/m² e la dimensione della cariosside. Tutto ciò ha portato a un aumento della produzione pari a 4-5 volte il potenziale delle varietà pre-Strampelli (fino a 10-12 t/ha). Il gene Rht-B1b è stato battezzato “a very lucky gene”. Perché? Dal punto di vista genetico e molecolare, il gruppo di Mike Gale a Cambridge ha spiegato il fenomeno in questo modo: Rht-B1b è un gene nato da una mutazione a un singolo nucleotide, verificatasi a una tripletta STOP codon. Ma subito dopo questa tripletta di STOP si è assortita una tripletta di START che codifica per Metionina, quindi il gene ha continuato a essere trascritto, producendo una proteina leggermente diversa dal wild type.
Il gene R (wild type) codifica per una proteina con tre funzioni: la più importante è quella di riconoscere la gibberellina e dirigerla verso i siti d’azione – le pareti delle cellule dell’internodo. Nel mutante, cioè Rht-B1b, questa funzione si perde per il segnale di STOP e START a livello molecolare, e quindi la gibberellina continua a essere prodotta dalla pianta, ma non viene veicolata per distendere le pareti cellulari dell’internodo (piante nane) e in più va a colpire organi importanti della riproduzione, come descritto in precedenza. Risultato finale: piante nane con una superiore potenzialità produttiva, sino a oggi ancora in crescita. Nel mondo l’incremento produttivo è stato notevole e si prevedono ancora progressi sostanziali sia in ambienti fertili che in ambienti stressati. L’evidenza di questo fenomeno fu messa in luce con un semplice esperimento, somministrando una soluzione contenente gibberelline a plantule di frumento wild type e mutate: ci si aspettava una crescita maggiore del mutante dwarf e nessuna crescita del wild type. Il risultato fu l’opposto: la varietà a taglia alta continuò a crescere mentre il mutante restò nano, e per questo fu battezzato “insensibile”. Con il gene Rht-B1b fu possibile descrivere un nuovo ideotipo di pianta, basato sull’Harvest Index (HI = biomassa utile/biomassa totale). Di fatto la potenzialità di biomassa totale non è cambiata tra i genotipi non dwarf e dwarf. È solo cambiato l’HI e ciò dimostra che tutta la genetica dei dwarf ha migliorato la relazione source-sink ed ha equilibrato il rapporto assorbimento/fotosintesi e trasporto/accumulo nei siti definitivi dei fotosintati. Ricercatori australiani hanno identificato il gene corrispondente a Rht-B1b in Vitis, dove è responsabile della trasformazione dei cirri in organi fiorali e quindi grappoli. Infatti nella vite il gene omologo a Rht-1 determina la conversione dei viticci in infiorescenze, che si evolvono nella formazione di grappoli d’uva. Nel normale sviluppo, in presenza della forma wild type del gene, i viticci non possono svilupparsi in infiorescenze perché bloccati dall’azione delle gibberelline (Stanca et al.2014). Il modello di pianta, il cosiddetto “ideotipo”, nel quale deve instaurarsi un ottimale rapporto tra sorgente di energia “fotosintesi” e siti di accumulo (frutto) è stato esportato ed applicato in altre specie vegetali. Al miglioramento genetico classico si è affiancata la mutagenesi sperimentale per l’ottenimento di nuove varietà.
La mutagenesi indotta nel settore vegetale ha un ruolo di rilievo non solo per lo studio delle funzioni geniche, ma anche, soprattutto in un recente passato, per indurre variabilità genetica da cui attingere nuovi fenotipi di potenziale interesse agrario. Negli anni 1960-70 sono state rilasciate diverse varietà di specie erbacee e arboree. In Italia la varietà di frumento Castelporziano è stata ottenuta direttamente per mutagenesidi Cappelli presso i Laboratori Applicazione Agricoltura del CNEN. La mutagenesi è ancor oggi ampiamente utilizzata nel settore delle piante ornamentali, in cui la richiesta di novità è costante. È stato scritto che il successo economico della genetica sia stato anche lo sfruttamento dell’eterosi, sia in campo vegetale sia animale. Questo fenomeno genetico indica la comparsa di vigore fenotipico nelle progenie ibride rispetto ai parentali omozigoti (Barcaccia et al. 2006). L’eterosi si è dimostrata strategia di grande interesse applicativo non solo nelle piante allogame (nel mais si sono raggiunte 15 t/ha in pieno campo), ma anche nelle autogame. Particolarmente rilevante è l’esempio del pomodoro (specie autogama), in cui lo sfruttamento di questo fenomeno ha spostato le produzioni, negli ultimi50 anni, dagli iniziali 300 q/ha agli attuali 1200 q/ha in pieno campo e 2200 q/ha in serra. L’interesse verso lo sfruttamento dell’eterosi si è spostato anche su frumento e orzo: quattro ibridi del primo e sei del secondo sono oggi in coltura in Germania (Sreenivasulu and Schnurbusch 2013). In un secolo di applicazioni scientifiche nelle piante coltivate si sono raggiunti risultati straordinari; agli esempi sopra riportati si può aggiungere la barbabietola da zucchero, che è passata negli ultimi 40 anni da una produzione di radici media di 30 t/ha ad oltre 100 t/ha con un indice zuccherino del 15%. Abbiamo raggiunto il plateau?!


(¹Tale relazione è stata  presa per gentile concessione dell'autore dalla rivista dell'ENEA EAI 1-2 2015, dedicata ad EXPO 2015). La seconda ed ultima parte di questa relazione, verrà pubblicata la prossima settimana.





Antonio Michele Stanca
Docente universitario, genetista di fama internazionale . E' Vicepresidente  dell’ Accademia dei Georgofili e dal 2011  è Presidente  dell’UNASA. Laureato  in Scienze Agrarie; è autore di oltre 350 pubblicazioni su riviste scientifiche nazionali e internazionali.



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Sulla surreale vicenda della fish-berry:
Bressanini D., La verità su ciò che mangiamo. Pane e Bugie. I pregiudizi, gli interessi, i miti e le paure. Chiarelettere, Milano, 2015 (VII ediz.), pagg. 33-45; 
Defez R., Il caso ogm. Il dibattito sugli organismi geneticamente modificati. Carocci editore-Città della Scienza, Roma, 2014 (I ediz.), pagg. 94-100.

Sulla questione dei “grani antichi”:
Sull’argomento glutine e pasta, sono dedicati interessanti capitoli all’interno del libro: Bressanini D., Mautino B., Contro Natura. Dagli OGM al “bio”, falsi allarmi e verità nascoste del cibo che portiamo in tavola. BUR best, Milano, 2016.
Guidorzi A., Frammenti di storia del frumento-grano del miracolo ovvero gli asini che volano. Agrarian sciences, domenica 08/10/2017. Disponibile su: qui
Monti M., Torna di moda il…Senatore-Non è la migliore varietà di Strampelli ma i prodotti soddisfano i consumatori. Agrarian Sciences, martedi 25/10/2016. Disponibile su: qui
Porfiri O., Grani antichi e moderni: un paradigma o una moda –“Le sarangolle”-. Agrarian Sciences, mercoledi 16/12/2015. Disponibile su: qui
Salvi S., Grani antichi: capolinea in arrivo? Agrarian Sciences, lunedi 20/03/2017. Disponibile su: qu
Salvi S., Grani antichi e salute: una proposta di linee guida per l’attuazione di trials clinici credibili. Agrarian Sciences, giovedi 15/06/2017. Disponibile su: qui.
Saltini A., La genetica del futuro: migliorare piante antiche o creare piante nuove?. In: Saltini A., Storia delle Scienze Agrarie( VII° vol.), Ed. Nuova Terra Antica, Firenze, 2013, cap. XXII, pagg. 635-652.
Si segnalano anche le seguenti pubblicazioni del capo ricercatore della sezione cerealicola di una delle più prestigiose stazioni agrarie sperimentali al mondo, per l’appunto Rothamsted in Inghilterra
Shewry P.R., Hey S., 2015. Do “ancient” species differ from modern bread wheat in their contents of bioactive components? Journal of Cereal Science, 65, 236-242.
Shewry P.R., Hey S., 2015; The contribution of wheat to human diet and healt. Food and Energy Security, 4 (3), 178-202.
Questi ultimi contributi sono invece stati sbrigativamente appellati come il “contrattacco a suon di articoli e ricerche finanziate dalle multinazionali…”, citando la rivista ma non gli autori, nel seguente  libro scritto da un filosofo, che raccoglie le esperienze regionali nella coltivazioni dei “grani antichi” (medie di 15-20 q.li/ha) e le esperienze del “breeding partecipativo” del Prof. Salvatore Ceccarelli. Agrarian Sciences ha così provveduto a riportare gli autori delle suddette pubblicazioni.
Il libro: Bindi G., Grani antichi. Una rivoluzione dal campo alla tavola, per la salute, l’ambiente e una nuova agricoltura. Terra nuova edizioni, Città di Castello (Pg), 2016.

Sulle piante del futuro:
Stanca A. M., Le prospettive della Scienza per l’azienda agraria nel XXIo secolo. Relazione tenuta in occasione della presentazione del VIo volume della “Storia delle Scienze agrarie” di A. Saltini. Biblioteca “A. Bizzozero”, Parma, 24/11/2012. Disponibile su : biblioteche comune Parma.


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